In copertina mani che cercano la libertà, che cercano qualcuno a cui aggrapparsi per salvarsi. Con questa immagine, si apre il libro “L’attualità del male. La Libia dei lager è verità processuale” curato da Maurizio Veglio, avvocato specializzato in Diritto dell’immigrazione. La presentazione del volume si è tenuta il 15 aprile alla Società letteraria di Verona. L’incontro è stato organizzato dal dipartimento di Scienze giuridiche dell’ateneo scaligero in collaborazione con l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione.
Il testo parte dalla sentenza della Corte d’assise di Milano contro un cittadino somalo, identificato dalle sue vittime come uno degli aguzzini del campo di Bani Walid. Il valore giudiziario e processuale della sentenza va oltre il solo accertamento delle responsabilità della persona in questione. Ha, infatti, una valenza lessicale che costringe a ridefinire il vocabolario con cui parliamo della Libia oggi e a riconsiderare le politiche sull’immigrazione. Una realtà che non è più possibile ignorare.
Maurizio Veglio ha ricordato come “la sentenza risulta essere ancora più importante per tre diversi ordini di motivi: è un accertamento fatto in un luogo che non corrisponde a quello del reato, nei confronti di una persona che non è cittadino italiano, a tutela di persone offese che non sono cittadini italiani. Ciò è stato reso possibile grazie alla richiesta del ministro della Giustizia”.
“La presenza dell’università – ha sottolineato Alessandra Cordiano, docente di Diritto privato d’ateneo – in una tematica così sensibile e difficile da trattare è un diritto e dovere, non riducibile a slogan e slide. L’ateneo deve rappresentare un ponte da e per la cittadinanza, una porta continuamente aperta per chi volesse entrarvi”.
Le atrocità commesse nei campi di tortura libici su migranti e libici sono quindi confermate. Sono luoghi in cui gli uomini, donne e bambini diventano schiavi e sono sottoposti alla fame, alla tortura e alla violenza. “Questo processo diviene portavoce – ha continuato Veglio – di decine di migliaia di persone che sono sopravvissute alla Libia e che sono arrivate in Italia. Persone che non hanno il beneficio di quella prima forma di solidarietà, la compassione, che spetta a chi ha subito ferite tanto profonde e traumatiche”. La depersonalizzazione e la disumanizzazione provocate dalla prigionia sono ferite che accompagneranno le vittime per tutta la loro vita.