Secondo una moderna teoria scientifica la coscienza potrebbe non
riguardare solo una condizione esclusivamente intima del cervello, ma essere
costituita da un “ambiente” cognitivo spazio-temporale, in cui sono inclusi gli
elementi dai quali proviene l’energia che produce gli stimoli sensoriali.
Per quanto materialisti si possa essere, non si ammetterà mai di “non
possedere coscienza” durante il proprio normale stato di veglia. Eppure la
coscienza non si vede, non si tocca, non emana alcun odore, non si può
assaggiare gustandone il sapore, non emette suoni.
Si potrebbe obiettare che astratto è anche il termine “sensazioni”, le
quali sono però il risultato della diretta interazione appunto col mondo
sensibile, e, che, pertanto – per quanto riguarda le sensazioni – il nostro
esperiente materialista sarà disposto ad accettarne l’esistenza, o perlomeno il
termine, al fine di poter comunicare le qualità percepite.
Con il termine “sensazioni”, infatti, il nostro materialista non esiterà a
identificare lo stato finale del processo quanto mai concreto, rilevabile e
misurabile, che, partendo da un agente esterno, stimola terminazioni nervose,
le quali portano il segnale a una determinata area cerebrale.
Non potendo però fare altrettanto per quanto riguarda la coscienza, si
dovrà limitare, invece, a enunciare un asserto logico condivisibile del tipo
“percepisco, dunque ho coscienza sensibile/sono cosciente/esisto”. Non si può
infatti essere certi di esser concreti e vivi senza averne, appunto, coscienza.
Proviamo allora a chiedere al nostro soggetto materialista di indicarci
dove risieda la sua coscienza. Egli affermerà che gli è/la “sente” connaturata e
intrinseca, e, probabilmente, indicherà il cervello quale “organo custode”, in
quanto “generatore” della medesima. Ciò senza che, in buona fede, gli possa
sembrare di sostenere nulla di strano, poiché, come di norma tutti gli uomini, è
dotato di un criterio autoreferenziale nella percezione del sé.
Ma, allo stesso tempo, se per indicare le sensazioni aveva individuato un
processo, ora è in difficoltà, e, contrariamente a quanto asserisce di solito
(quando sostiene di rifiutare di prendere in considerazione qualsiasi entità
metafisica), pretende di possedere una sorta di “anima funzionale” definendola
“coscienza”, riconducendone la genesi al processo da cui emergono le sue
percezioni, ma intendendola poi come una sorta di entità immanente e statica.
Sarà per lui da questa coscienza intima, quindi, che potrà avere
cognizione del suo schema corporeo, in cui riconoscere destra, sinistra, alto,
basso, davanti, dietro, prossimale, distale, interno esterno (parametri sempre
presenti almeno in quella parte di coscienza chiamata “inconscio”). E come
negarlo? Senza questi riferimenti nessuno potrebbe percepirsi integro e
unitario, e chiunque si sentirebbe perso, così come ci si sentirebbe persi in un
mondo costruito con una geometria senza rette parallele (ovvero non-
Euclidea).
Il nostro soggetto (per quanto materialista) al liceo accettò di buon
grado, che le rette parallele non si possano incontrare all’infinito, anche senza
poterlo dimostrare o andare a verificare di persona (appunto all’infinito); ma
poi, all’università (supponendo che abbia frequentato una facoltà scientifica),
altrettanto di buon grado accettò la logica delle geometrie non euclidee, così
come quella della teoria della relatività, anche se opposte alla natura della sua
“coscienza sensibile” autoreferenziale.
Lo stesso signore, nondimeno continuerà a “sentire” il proprio corpo
distinto in una parte destra e in una sinistra, senza essere in grado di dare una
definizione di cosa intende per “destra” e per “sinistra” se non facendo ricorso
a operazioni ostensive, o relazionando il proprio corpo alla rotazione terrestre,
della quale invece non ha percezione, e tantomeno coscienza continua.
Insomma, possediamo evidentemente un codice di riferimento interno “ad
hoc”, che non ha nulla di oggettivo, e per averne dimostrazione basta mettersi
davanti allo specchio. Lo specchio infatti riflette la nostra immagine con fedeltà
rispetto ai punti cardinali terrestri, ma non certo alla destra e alla sinistra, che
fanno parte del nostro codice di riferimento interno. Se dovessimo chiederci
come mai nell’immagine riflessa alto e basso non sono invertiti, mentre la
destra e la sinistra sì, istintivamente entreremmo in confusione senza renderci
conto, appunto, che stiamo mescolando un codice di riferimento a un sistema
esterno, con quello nostro intimo. Solo perché siamo abituati dall’esperienza
pregressa non troviamo nulla di strano nel vedere riflessa nello specchio la
nostra faccia, e trascuriamo di realizzare che lo specchio piano appeso alla
parete del nostro salotto, ruota di 180 gradi la nostra immagine invertendo
necessariamente la destra con la sinistra, ma non capovolge l’immagine.
Morale: può essere ragionevole asserire attraverso i nostri parametri
autoreferenziali tanto poco affidabili alla speculazione epistemologica (per
quanto comodi e indubbiamente utili nella vita pratica quotidiana) che la
coscienza non possa risiedere altrove, se non all’interno del corpo?
Da una parte nulla impedisce che sia così, ma nulla può garantirci che
non si tratti di una pura illusione autoreferenziale.
Se la coscienza fosse metafisica non avrebbe alcun senso parlare di una
sua ubicazione e nulla vi sarebbe da indagare da parte della scienza; se invece
fosse fisica non parrebbe proprio appartenere al mondo fisico per noi
percepibile che ci è familiare, ma avrebbe una fisica propria, e tutta da
scoprire.
Eppure, finora la speculazione filosofica e scientifica non aveva mai posto
in dubbio la “sede” della coscienza, considerandola interna al cervello, pur
senza poterne dare alcuna prova. Le tecniche più avanzate di scansione del
sistema nervoso centrale non riescono che a fornire alcuni dati, che
consentono di localizzare certi processi cognitivi, ma senza poter attribuire agli
eventi rilevati una valenza diversa da quella puramente fenomenica.
Nulla vieta invece di pensare che la coscienza possa avere un’estensione
più allargata, consistente in una fisica del rapporto, che include l’oggetto
esterno percepito e il soggetto percipiente, invece di essere confinata solo nelle
strettezze della scatola cranica, nonostante che essa venga “sentita” dagli
uomini come un’entità assolutamente intima.
Tale ipotesi è intuitivamente conflittuale con l’interpretazione della
coscienza che abbiamo visto emergere dal “sistema autoreferenziale”, né più
né meno di quanto lo fossero la teoria della relatività e le geometrie non
euclidee.
Almeno per non correre il rischio di non esplorare una pista pervia
all’indagine scientifica e immune dai possibili condizionamenti della mente
autoreferenziale, gli scienziati devono oggi cercare col massimo dell’attenzione
e della buona fede di verificare (o falsificare) la teoria dell’Onfene di Manzotti e
Tagliasco, secondo la quale si può costruire una “teoria della coscienza
allargata”, liberandosi dai vincoli imposti dall’intuizione autoreferenziale.