Non solo medici di ospedale, o aspiranti tali, al convegno offerto dall’Azienda ospedaliera universitaria integrata di Verona: presenti anche familiari di malati, infermieri, operatori sanitari e medici di famiglia, che hanno potuto entrare nei meandri della cura oncologica vista da nuove figure come psicologi, antropologi, sociologi. Il programma della giornata si è sviluppato in tre momenti distinti: una mattinata dedicata all’espressione degli esperti di cosa sono la cura, il supporto, la palliazione, da una dimensione sociale, ma anche psicobiologia, etica e antropologica. E’ seguita nel primo pomeriggio una tavola rotonda e il tutto si è concluso con la lettura magistrale di Umberto Galimberti dal titolo ‘Il dolore, la malattia, la morte’.
La cura…oltre la cura. La mattinata, dedicata soprattutto alla conoscenza dell’argomento, ha visto i relatori procedere sullo stesso binario: il tumore è una malattia che scuote, con una serie di conseguenze innumerevoli. Il nucleo del convegno era rappresentato da due concetti, quello di evoluzione della cura oncologica e del concetto di dignità. “C’è un quotidiano sforzo – ha affermato Gianluigi Cetto, professore ordinario di Medicina clinica e sperimentale, sezione di Oncologia – di adattare i progressi alla sofferenza dei pazienti. I medici di oggi sono preparati per approcci più mirati, hanno una visione diversa e sono pronti ad aiutare i familiari, oltre che sostenere il malato. E’ necessaria la comunicazione: pochi farmaci e più parole”.
Dignità non solo sulla carta. Le varie forme scritte di diritti dell’uomo parlano sempre di dignità, ma in cosa consiste? Ognuno può dare una definizione, ma quello che il convegno ha cercato di spiegare è che il termine è decisamente inflazionato e usato non del tutto propriamente. Tra gli interventi dei massimi esperti ce n’è uno che li riassume alla perfezione: Gianni Bonadonna, uno dei primi oncologi italiani, di fama mondiale, è stato colpito da un ictus. Da una sedia a rotelle e con decise difficoltà di comunicazione ha detto a voce tremante: “Il medico deve imparare a pensare come fa un malato; bisogna avere l’umiltà di imparare da chi soffre e i malati soffrono. C’è bisogno dell’umanizzazione dell’arte medica e dell’empowerment del paziente. Con il dolore si impara, anche chi non vorrebbe arriva a sapere”. Il suo libro ‘Medici umani, paziente guerrieri. La cura è questa’ spiega già dal titolo con chiarezza il concetto.
Scienza e cultura. La tavola rotonda ha visto il confronto e la presentazione di testi specifici in materia di cure palliative. Il primo a prendere parola è stato il sociologo della salute Costantino Cipolla che ha spiegato che serve una condivisione di impostazione del mondo “e io l’ho trovata nella persona del dottor Cetto, con in quale abbiamo svolto una ricerca”- ha spiegato – Si sta concretizzando quello che chiamiamo la categoria ‘scienza-cultura’ perché il lavoro di oncologo permette di applicare le scienze e le conoscenze, ma per dare un senso al lavoro ci si appoggia a questa posizione recente che necessita del rispetto dell’altro, della comprensione, una cultura della malattia con il malato, senza ricondurre sempre tutto alla ‘medicalizzazione della vita’”. Hanno portato la loro esperienza anche Sandro Barni, Antonio Francesco Maturo, Mauro Niero, Mirella Ruggeri, Maria Antonietta Bassetto e Carmelo Iacono; ha moderato Elena Cardinali, giornalista de ‘L’Arena’ di Verona.
Viandanti, non viaggiatori. Docente di Filosofia della storia all’università Ca’ Foscari di Venezia, autore di numerose pubblicazioni, Galimberti ha concluso in maniera emozionante il convegno. “Il medico si deve fare filosofo – ha iniziato così la lezione magistrale – perché il dolore è muto, il dolore parla attraverso la cultura che lo ospita. Nella storia abbiamo assistito a due grandi visioni: quella greca antica nella quale la morte è ciò che ci compete, e il dolore non aveva senso, perciò quando il dolore raggiungeva l’uomo doveva reggerlo, sostenerlo; c’è stata poi la matrice giudaico-cristiana, nella quale il dolore salvifica, e la grandezza del dolore sta nel fatto che serve per espiare perché poi c’è un’altra vita”. E ha concluso spiegando meglio il concetto dal quale era partito: “Voi medici siete viandanti, non viaggiatori: non potete fare scelte dedotte da principi, perché non ci sono principi; la medicina è una scienza del ‘per lo più’ o del ‘talvolta’ non è una scienza esatta del ‘sempre’. Ogni volta siete nel dramma, ed è questa la condizione vostra, quella di essere viandanti, quando parlate con un paziente dovete intercettare la cultura della persona che avete davanti, e davanti ad una montagna dovete scegliere se salire o passarci a fianco”.