Come si realizza l’integrazione in Università? Non certo solo con il superamento degli esami e il perseguimento della laurea. La partecipazione attiva alle iniziative del Centro disabili è la modalità migliore. E’ quello che è avvenuto al convegno del mese scorso. Fra partecipanti, attori e protagonisti che per il conseguimento del Cfu concesso dalle Facoltà hanno dovuto stilare una relazione, come responsabile del centro desidero segnalare per la pubblicazione questo appassionato resoconto quale significativa testimonianza di chi ha vissuto tutta l’esperienza in prima persona.
Franco Larocca, delegato per la disabilità
La relazione di Giovanni Bovi
Sabato 29 maggio, al “Polo Zanotto”, si è svolto un evento destinato a lasciare un segno, sicuramente nella mia vita, ma spero anche in quella degli altri partecipanti: il Convegno “Mediatori in sinergia, per un processo di integrazione in Università”. Organizzato dal Centro Integrazione dell’Università di Verona, e tenacemente voluto dalla Tutor di Sistema dottoressa Fabiana Canarini. Il convegno ha voluto focalizzare l’attenzione del mondo universitario, e di tutti coloro che in qualche modo si occupano in città della formazione dei giovani in difficoltà, sul problema della disabilità e in particolare sulla possibile integrazione degli studenti disabili in Università, purché i diversi Mediatori entrino appunto in una consapevole e attenta sinergia.
Io, che vivo la disabilità in prima persona e che frequento ormai da anni il Centro Disabili di Ateneo in quanto studente di Scienze della Comunicazione, ho partecipato al convegno a pieno titolo, sia da spettatore che da relatore che da attore. Questa esperienza, vissuta a tutto tondo con un mio specifico ruolo al suo interno, mi ha lasciato una sensazione di pienezza e di soddisfazione interiore che in poche altre occasioni della vita ho potuto provare.
Innanzi tutto “i riflettori” puntati su di noi, ragazzi disabili ma pur sempre abili, ci hanno fatto sentire, una volta tanto, che anche noi siamo una presenza significativa nel mondo e non solo un problema sociale.
Perché questo è il vero problema: spesso non ci sentiamo considerati come dei giovani con la voglia di “spaccare il mondo” come tutti gli altri ragazzi della nostra età, ma come dei “casi umani”, da affrontare magari con encomiabile competenza medica o psicologica o sociologica, ma senza un approccio vero alla nostra persona. Ebbene, questo convegno mi ha dato una grossa carica interiore, perché ha ricordato a tutti, me compreso, che noi siamo delle persone, fatte di carne e spirito come tutte, con la stessa voglia (e gli stessi diritti) degli altri giovani di impegnarci, di apprendere, di progredire, di progettare il nostro futuro, di sognare, di divertirci, di provare dei sentimenti di amicizia e di amore. Anche noi abbiamo qualcosa da dire e da dare, basta che gli altri non abbiano paura di noi e abbattano quelle invisibili barriere che ci tengono a distanza. Certamente anche noi, ragazzi disabili, abbiamo i nostri difetti e spesso siamo noi stessi a chiuderci nel nostro mondo, forse per timore che si ripetano da parte degli altri “rifiuti” ormai già tante volte sperimentati. Non vogliamo quindi essere considerati dei “santi” e, come tali, inevitabilmente “martiri”; chiediamo invece di essere considerati persone, con pregi e difetti, né più né meno, così come noi consideriamo i ragazzi che non sono portatori di handicap: il resto verrà da sé, con gli alti e bassi che a tutti propone la vita.
C’è poi un altro aspetto che mi preme sottolineare e che il professor Larocca ha così bene evidenziato: non esiste integrazione senza individualizzazione. “Ognuno deve partire dal punto in cui è”, ha affermato il professore nel suo intervento al convegno, e io non posso che concordare, proprio sulla base della mia esperienza. Quando frequentavo il liceo, ho spesso dovuto combattere con mentalità sbagliate dei miei insegnanti o dei miei compagni di scuola, che pensavano solo a farmi fare le cose che facevano gli altri senza tenere conto della mia reale diversità e pretendendo, ad esempio, che io svolgessi i compiti in classe negli stessi tempi degli altri e con gli stessi mezzi; il tutto col risultato di ingenerare in me un senso di impotenza e di ribellione, in quanto non ero messo nelle giuste condizioni per dimostrare pienamente quanto avevo appreso, peraltro sempre con molto impegno e sforzo personale. La gente spesso crede in buona fede di rispettarci solo quando ci chiede di fare le stesse cose degli altri; invece per me il rispetto nei nostri confronti è riconoscere la nostra diversità e consentirci di percorrere le nostre strade con mezzi idonei. Solo così, infatti, si può limitare il nostro handicap, che è pur sempre, almeno inizialmente, uno svantaggio.
Devo ammettere con tutta sincerità che quelle del professor Larocca non mi sono sembrate solamente frasi ad effetto per un convegno, ma sono la base su cui lui ha ideato e costruito con tanto impegno il Centro Disabili che oggi opera nel nostro Ateneo e il cui intento è evidentemente condiviso dai docenti, che finora ho sempre trovato attenti e sensibili nel metterci nelle condizioni di poter essere verificati con modalità e tempi individualizzati. Appena ho iniziato a frequentare l’Università, mi sono subito reso conto che si respirava un’aria di rispetto e di normalità nei nostri riguardi: non eravamo né visti né trattati come “alieni”, ma ci mescolavamo tra tutti, studenti tra gli studenti, giovani tra giovani, con un rapporto molto bello tra noi e i volontari, ragazzi come noi, anche se più fortunati di noi, che condividevano con noi momenti di lezione, di studio, ma anche di svago, soprattutto nel momento “magico” della mensa. Qui all’Università posso dire di aver fatto una prima esperienza di integrazione che a scuola non avevo fatto, anche perché gli assistenti o gli insegnanti di sostegno erano pur sempre degli adulti che spesso, proprio con la loro semplice presenza, allontanavano i compagni da noi. Ringrazio di cuore perciò il professor Larocca che ha sempre creduto in noi, ha creduto nella nostra integrazione e ci ha sempre spinti all’autonomia e alle sfide per lui mai impossibili.
Il Convegno ha anche visto intermezzi musicali da parte degli studenti del Corso di Musicoterapia del Conservatorio “Dall’Abaco” di Verona e due interventi davvero interessanti di musicoterapeute: Petra Maria Teclu e Gabriella Lo Cascio. Non lo sapevo, ma al convegno ho imparato che la musica ha il potere di modificare la struttura dell’acqua e addirittura delle cellule umane!
Ma arriviamo, adesso, al momento in cui, dopo la testimonianza dell’artista Mario Ambrosini, io stesso (stento ancora a crederlo) sono stato per cinque minuti un relatore del convegno. Prima a Simone Bonaconza, poi a me ed infine a Viviana Veronesi, è stato infatti dato il compito di parlare del laboratorio teatrale che quest’anno è stato organizzato dal Centro Disabili e che noi abbiamo avuto l’opportunità di frequentare.
Io ero fiero del mio ruolo, ma anche molto emozionato, sicché le parole mi sono uscite di bocca molto lentamente, quasi fossero “dei frammenti greci”, come ha detto il professor Larocca alla fine del mio discorso. Io però sono rimasto ugualmente soddisfatto, soprattutto perché sono riuscito ad arrivare in fondo e ad esprimere le cose a cui più tenevo. Preferisco comunque riportare in questa relazione il testo integrale che avevo preparato per il convegno. Eccolo:
“Il teatro è stata per me un’esperienza bellissima, che mi ha dato tante emozioni.
Potevamo essere anche noi, ragazzi disabili, degli attori?
Avremmo avuto un regista importante tutto per noi?
Il laboratorio teatrale si è rivelato una sfida da affrontare, perché ci è stata fatta una proposta che non aveva paura delle nostre piccole o grandi difficoltà, ma che ci dava l’opportunità di dimostrare, prima di tutto a noi stessi e poi agli altri, che siamo davvero “diversamente abili”.
Così, insieme a tutti gli altri, volontari compresi, ho cominciato la grande avventura. Non ho saltato un martedì pomeriggio, la giornata per me più attesa di tutta la settimana, quella dei nostri incontri. Un po’ alla volta si liberavano le mie emozioni e i miei sentimenti, ed era bello constatare che ciò accadeva anche ai miei compagni. Così si è creato un po’ alla volta un clima di condivisione e di amicizia.
Poi c’è stato da pensare alla spettacolo che presenteremo oggi pomeriggio. Questa è stata una magnifica opportunità per fare qualcosa tutti insieme, per scorrazzare per campagne e castelli a fare foto o filmati, o per sedersi a bere e a parlare ai tavolini di un bar.
Spero tanto di poter ripetere quest’esperienza anche l’anno prossimo e ringrazio di cuore tutti coloro che l’hanno resa possibile: il professor Larocca, le dottoresse Canarini e Castellani, il regista Cuoghi, i parenti e gli amici .
Il nostro spettacolo si intitola “L’Utopia ed il sogno”, ma la nostra esperienza teatrale mi ha insegnato che non bisogna avere paura: anche i nostri sogni possono diventare realtà.”
Dopo i nostri tre interventi si è chiusa la prima parte del convegno, quella che si è svolta presso il Polo Zanotto. In un’ora ci siamo tutti trasferiti al Teatro Stimate, pronti a cimentarci nella nostra performance teatrale.
Che dire del nostro spettacolo? Bello, troppo bello per esaurirsi in una sola ora della nostra vita. Sognante, emozionante, coinvolgente, vero. E tutto nostro, perché il regista si è limitato ai compiti di regia, ma l’argomento, L’Utopia e il sogno, i testi e la realizzazione dei filmati, sono stati lasciati alla nostra totale iniziativa. Incredibilmente, anche se non c’è stato un copione studiato a tavolino, è emerso un filo conduttore che ha legato tra loro poesie, filmati e musical, il tutto orchestrato in un sapiente gioco di luci e di musiche.
Io ho presentato una serie di foto ritraenti prati e fiori; come colonna sonora ho scelto “Un mondo D’Amore” di Gianni Morandi. Il mio messaggio era contenuto nella frase che alla fine si vedeva in sovrimpressione: “ Noi giovani, tutti diversi, ma tutti uguali per costruire insieme un mondo d’amore”.
Il momento forse più emozionante è stato però il filmato che avevamo girato io e la dottoressa Canarini al castello di Montecchio. Lei era vestita da Fata Utopia, io da principe rinascimentale che decide di scavalcare le mura del suo castello pur di raggiungere la ragazza che ama, in questo caso Serena, anch’essa ripresa nel filmato. La musica della canzone “Mio padre è un re” di Biagio Antonacci ha poi dato alla scena un’atmosfera unica, assieme alla voce “da attrice” della dottoressa Canarini.
Lo spettacolo si è poi concluso con un allegro musical, che ci ha visti tutti coinvolti, anche se i due protagonisti principali erano i due strepitosi innamorati (c’è stata anche la scena del bacio…) Simone e Viviana. Alla fine gli spettatori si sono alzati in piedi per applaudirci e gridarci “bravi”: un successone per noi, i volontari e le dottoresse Canarini e Castellani, nonché il professor Larocca, tutti partecipanti allo spettacolo.
Sono seguiti poi due interventi collegati: la relazione del regista Ezio Cuoghi, direttore del Dipartimento dell’Accademia delle belle arti di Milano, e quella di Sofia, una ragazza di Scienze della formazione che ha parlato della sua esperienza di osservazione partecipata al laboratorio teatrale. C’è infine stato il discorso del neurologo dott. Luigi Giuseppe Bongiovanni, e ancora un intermezzo musicale con la recitazione di alcune poesie scritte dalla dottoressa Canarini e con l’esibizione di una ballerina, e infine il discorso di chiusura del prof. Larocca.
Alla fine tutti a casa, con tanta soddisfazione dentro, ma anche con un po’ di amarezza perché tutto era finito…
Alcuni commenti?
Mia zia Daniela: “ Una giornata indimenticabile”.
Mia madre Silvana: “ Uno dei più bei giorni della mia vita”.
Speriamo di ripetere ancora giorni come questi.
Giovanni Bovi