Il punto.Facciamo prima il punto: dove si è nuovamente arenato il DDL Gelmini, dopo aver superato innumerevoli pali e paletti? In commissione bilancio. Perché? Perché il DDL era inizialmente previsto a costo zero, cosa costantemente dichiarata da tutti improponibile. Ora, a seguito degli innumerevoli appelli della CRUI, di sollecitazioni a tanti livelli compresa la massima carica dello Stato e certamente anche delle proteste montanti, la Commissione VII della Camera ha approvato un emendamento che prevede 9.000 posti di associato in 6 anni, oltre al finanziamento di un fondo per la qualità degli Atenei. Si ricorderà che il Ministro Gelmini e il Ministro Tremonti, in una recente conferenza stampa congiunta, avevano confermato tale apertura, pensata inizialmente come un co-finanziamento ministeriale. La commissione, invece, lo ha approvato come finanziamento totalmente a carico di fondi statali, per un valore complessivo di 1,7 miliardi. Di conseguenza, anche a seguito di una dichiarazione negativa del ragioniere dello Stato, la Commissione bilancio ha ritenuto di non poter approvare il DDL in questa versione prima di conoscere la situazione delle risorse, per cui la Conferenza dei capigruppo alla Camera ha rinviato il parere finale sul DDL al prossimo 15 novembre.
L’analisi.Questi sono i fatti. Sotto un profilo squisitamente tecnico si tratta di una mossa ineccepibile e ritengo che, qualora preludesse ad una conclusione del percorso parlamentare entro novembre, non si potrebbe che esprimere il nostro compiacimento.
Purtroppo, pur non avendo consuetudine con la dietrologia, è difficile non essere molto dubbiosi, considerata la lunghissima storia della fondamentale questione dell’Università italiana e della necessità urgente che essa venga riformata, questione che giace sul tavolo di diversi governi da almeno 10 anni. Ecco perché i giornali di oggi recitano: “A che gioco giochiamo?”.
Alcuni universitari continuano a contestare la Gelmini. Attenzione! Il DDL è condiviso nella sua sostanza in modo trasversale molto ampio. Il precedente ministro Mussi era intervenuto in modo quasi sovrapponibile ed ha oggi commentato che anche la sua azione si era infranta contro tagli ai fondi universitari.
Ancora una volta, come nel caso Mussi, la questione è finanziaria. Purtroppo, non si può che constatare che ricerca e istruzione superiore non rientrano tra le priorità politiche identificate da questo Paese. Quest’ultimo episodio lo conferma, così come lo ha posto in evidenza nei mesi scorsi la pessima scelta di colpire selettivamente solo gli universitari mettendo le mani sui loro già miseri stipendi per operare la manovra finanziaria di maggio.
Le posizioni dei rettori. I rettori sono stati responsabilmente mediatori tra una indiscussa necessità di affrontare con sacrifici la congiuntura ed un corpo accademico in ebollizione perché punito in modo esclusivo nelle proprie tasche.
Non ci è facile, oggi, continuare a farci carico di scelte che non abbiamo mai condiviso, perché porteranno alla catastrofe non certo noi più anziani – che già abbiamo dato e ricevuto – ma le prossime generazioni. Sia ben chiaro, la riforma è indispensabile: nella attuale versione, pur ancora migliorabile, potrebbe e dovrebbe andare avanti. Ciò che non potremo mai condividere è l’operare su istruzione e Università solo per apportare tagli che impediscono di migliorare e, all’opposto, obbligano a peggiorare. Questo mentre gli altri Paesi europei reagiscono alla crisi investendo fortemente sull’Università. Disinvestire dall’Università è uno sbaglio enorme, vuol dire gettare capitali insostituibili, vuol dire abbattere un patrimonio italiano che sarà molto difficile ricostruire. Le approvazioni della UE delle decisioni finanziarie italiane non entrano nel merito dei contenuti programmatici, hanno un significato prevalentemente contabile che non analizza il futuro della collocazione dell’Italia in una competizione internazionale fondata sul patrimonio intellettuale.
Se le cose andranno come temiamo, chi potrà trattenere i nostri giovani dalla fuga ? Deve essere ben chiaro: non se ne andranno per colpa degli Atenei, ma della diffusa sfiducia nei confronti delle capacità di realizzare scelte politiche da parte di questo Paese disorientato.