Giovanni Berlucchi in occasione della cerimonia di inaugurazione del XXVIII anno accademico, in programma mercoledì 16 febbraio alle 10.30 nell’aula magna del Polo Zanotto, terrà la lectio magistralis “Università, ricerca e neuroscienze come ponte fra la cultura scientifica e quella umanistica”. Prendendo spunto dal titolo della lectio abbiamo chiesto a Berlucchi, già ordinario di Fisiologia della facoltà di Medicina e Chirurgia dell'ateneo scaligero, di descrivere la personale esperienza di medico e d'accademico ed il legame tra ricerca e università. Ne è nata una conversazione che evidenzia il punto di vista del professore sull'Università di ieri, di oggi e futura in Italia.
Professor Berlucchi, cosa significa per lei aver dedicato tutta la vita alla ricerca scientifica?
E’ vero che la ricerca ha sempre occupato una parte importante della mia vita e del mio lavoro, ma non è vero che le ho dedicato tutta la vita. Sono felicemente sposato da più di mezzo secolo, ho figli e nipoti e assieme al lavoro la famiglia ha sempre occupato una posizione preminente nella mia vita. Inoltre ho anche altri interessi che spero mi aiutino a tenere attivo il mio vecchio cervello ultrasettantenne. La ricerca l’ho sempre fatta e cerco ancora di farla anche da pensionato. E l’ho sempre fatta per passione ma anche perché la considero il primo dovere di chi insegna all’università. Ne conosco gli splendori e le gioie ma anche le fatiche e le frustrazioni che sono tante e richiedono resistenza fisica e morale.
In tanti anni di carriera quali sono i traguardi raggiunti che ricorda con più piacere?
Lego i ricordi più cari non a “traguardi” precisi ma alla stima e all’affetto che mi hanno manifestato i miei ammirati maestri, i brillantissimi coetanei con i quali ho avuto la fortuna di collaborare da giovane e sono rimasti amici per la vita, e alcuni dei miei allievi ai quali sono riuscito a trasmettere la passione per la ricerca.
Quali consigli e suggerimenti può dare ai giovani ricercatori di oggi?
Il mio consiglio è quello di immergersi nella ricerca da giovani perché è a quella età che si impara e ci si appassiona molto più che in seguito. Purtroppo conosco gli ostacoli che l’attuale organizzazione del sistema universitario oppone all’immersione a tempo pieno nella ricerca: un impegno nella didattica troppo precoce, poco gratificante, e magari da svolgere a decine di chilometri dalla sede della ricerca; la mancanza di fondi; la preoccupazione per il proprio incerto futuro; a volte l’assenza di un ambiente intellettuale stimolante e di esempi da seguire. Sono ostacoli in parte storici, ma il loro peso è aumentato da quando ero giovane e temo continuerà ad esistere, se non ad aumentare, per il disinteresse della politica per la ricerca.
Il 16 febbraio inaugurerà l’anno accademico con la lectio magistralis “Università, ricerca e neuroscienze come ponte fra la cultura scientifica e quella umanistica”. Quale messaggio intende trasmettere?
Messaggio mi pare una parola troppo importante per quello che potrò dire in mezz’ora. Vorrei far capire le possibilità che le neuroscienze contemporanee offrono per una migliore comprensione dell’umanità e dell’unicità del singolo individuo collegando l’evoluzione biologica all’influenza della cultura. E vorrei anche auspicare che nella giusta aspirazione ad una istruzione superiore per gran parte della popolazione, si distinguessero poche (diciamo 20) università dove la ricerca è obbligatoria per tutti i docenti e l’insegnamento è strettamente collegato alla ricerca, da istituzioni corrispondenti ai college e alle scuole politecniche dei sistemi anglosassoni, dove la ricerca non è vietata ma l’attività principale è una didattica rivolta al conseguimento di diplomi terziari. Secondo il Miur esistono 95 “Atenei” in Italia, ciascuno dei quali ha in media 3,47 corsi in sedi distaccate anche a molti Km di distanza. Come si può pensare che ci siano i quattrini per finanziare la ricerca in ciascuno di questi corsi, e come si può pensare che tali organizzazioni corrispondano al vecchio ma ancora fondamentale ideale dell’università come istituzione dedicata non solo alla trasmissione, ma anche alla creazione del sapere?