Capacità nel gestire le risorse sempre meno numerose, apertura al territorio per capire in quale direzione orientare le scelte formative, collaborazione con gli enti disposti a finanziare attività didattiche e progetti formativi, ricorso alla meritocrazia nella valutazione di docenti per la carriera e anche degli studenti per sostenere quelli che raggiungono buoni risultati ma che non hanno mezzi per studiare. Il tema della “fuga” dei cervelli. Sono queste alcune considerazioni che si possono trarre dall’intervento del rettore Alessandro Mazzucco per l’apertura del nuovo anno accademico.
Qui di seguito riportiamo uno stralcio della sua relazione.
Non eviterò di toccare sia pure in modo molto conciso, il tema che ha dominato la questione universitaria italiana in questi ultimi anni, cui spesso mi sono riferito: la necessità di ammodernare il sistema universitario nel nostro Paese, culminata con la recente approvazione della legge di riforma. Da quasi 20 anni in Italia si sono susseguiti una serie di interventi con intendimenti riformatori che sono tuttavia rigorosamente franati nel corso del dibattito parlamentare oppure nella fase attuativa. L’esigenza di ammodernare l’Università è stata percepita in tutti i paesi europei. Negli ultimi anni la sostanziale totalità di essi ha adottato un radicale processo di riforma dei propri sistemi universitari, dalla Gran Bretagna nel 1992 alla Finlandia nel 2010.
Innanzitutto è evidente un problema di “qualunquismo delle opinioni”. Se è pur vero da un lato che il livello di informazione e soprattutto di cultura media dei cittadini è cresciuto, una quota ancora ampia e rumorosa della popolazione (dentro e fuori l’università) teme il cambiamento e la modernizzazione, come tutti i mutamenti che incidono sulle abitudini e sulle prerogative di vita. Non infrequentemente vengono accreditate opinioni che prescindono dal possesso di specifiche competenze sul tema oggetto di discussione. Questa impostazione non favorisce il processo di rinnovamento, ma rischia di insabbiarlo.
E comunque, non è in dubbio che l’Università, non essendo accessibile a tutti – come lo è invece la scuola dell’obbligo – non può essere considerata un bene pubblico in senso stretto, ma piuttosto un bene meritorio, cioè un bene suscettibile di sostegno ed incoraggiamento da parte dello Stato per le sue ricadute positive su una parte determinante della società civile, quindi per rendere competitivo il sistema produttivo.
Fuga dei cervelli?
L’Economist il 6 gennaio scorso in un articolo intitolato “Fuga di cervelli in Italia”, cita dati OCSE secondo cui sono 300.000 gli italiani laureati che hanno scelto di lasciare un Paese che è diventato ricco senza però liberarsi da un quadro sociale in cui l'accesso ai posti di lavoro dipende da legami familiari, di carattere politico e raccomandazioni. L’attuale governo riconosce il fenomeno, ma lo attribuisce esclusivamente alla uscita dei ricercatori in ambito scientifico. Questa affermazione non è sostenibile. Uno studio del 2004 ha rilevato che, tra tutti gli emigranti italiani, la percentuale dei laureati è quadruplicata tra il 1990 e il 1998 ed è salita a 4.000 nel 1999. Ciò che distingue l'Italia dagli altri Paesi non è il numero assoluto dei suoi laureati emigrati (nel 2005 ben di più hanno lasciato la Gran Bretagna o la Francia, ad esempio), ma il fatto che in Italia questi flussi hanno un clamoroso bilancio in negativo, cosa tipica di un Paese in via di sviluppo. Una ricerca della Oxford Brookes University, condotta mediante interviste a più di 50 scienziati italiani emigrati nel 2006 ha consentito di individuare due ragioni principali per la loro decisione di abbandonare la patria: la prima, lo scarso investimento italiano nel campo della ricerca (il più basso dell'Unione europea dei 15); l'altra, cito letteralmente, "il problema più importante e difficile del mondo accademico in Italia è stato il suo sistema di reclutamento non trasparente". Se sulla questione del reclutamento è l’Università ad essere chiamata a garantire le opportunità, sulla drammatica situazione del sottofinanziamento debbono provvedere i governi.
“Prima di versare altro vino nella botte è necessario ripararne i buchi”
Il nostro sistema universitario, infatti, è indiscutibilmente finanziato in modo insufficiente, ma come verrebbe usato un maggior finanziamento in assenza di riforme? La risposta è sintetizzata nel rapporto CNVSU 2009 sul sistema universitario: nel decennio 1998-2008 il finanziamento è aumentato del 39% ; il numero di docenti è cresciuto del 26%, ma con un aumento di costo del 63%; il numero di professori ordinari è cresciuto del 44% con un aumento di costo dell’83%. Da qui la convinzione, espressa in quest’aula dal compianto ministro del Tesoro Tommaso Padoa Schioppa, che “prima di versare altro vino nella botte sia necessario ripararne i buchi”.
Imparare a operare con minori risorse
Vorrei quindi condividere alcune considerazioni. La prima è: “dobbiamo imparare a operare con minori risorse”. Solo tre riflessioni di carattere molto generale su questo argomento: La disponibilità di minori risorse impone la riduzione della spesa fissa, che significa riduzione della spesa per il personale. Non è vero che i docenti universitari italiani siano molto pagati. Tutt’altro. Particolarmente nelle fasi iniziali, le loro retribuzioni, come fu riconosciuto dal ministro Mussi, sono vergognose. Ciò premesso, appare tuttavia impensabile ridurre il numero dei docenti senza produrre gravi danni alla offerta produzione didattico-scientifica. Contrariamente a quanto si pensi, gli organici sono molto bassi in Italia: a mero titolo di esempio, una piccola Università olandese come Twente, che ospita 8.500 studenti ha a disposizione 2.800 dipendenti, di cui 1.650 accademici. Verona, con quasi il triplo di studenti, ha la metà del personale; la minore consistenza del fondo unico statale potrebbe dar luogo ad una diversa distribuzione del fondo tra gli Atenei in ragione della loro capacità di riorganizzare la propria spesa, oltre che di produrre didattica e ricerca. Su questo argomento è facile prevedere ulteriori scontri, perché coloro che soffrono di una scopertura di fabbisogno difficilmente si rassegneranno a ridurlo, lotteranno per avere le quote più alte di FFO, a scapito di coloro che hanno invece contenuto le loro spese. In altri termini, si prospetterà una vicinissima nuova frattura interna al sistema universitario, che nelle attuali condizioni avrà il triste sapore di una guerra tra poveri. Questo è più che un rischio e va guidato. Come? Lo strumento si può riassumere in tre punti: assicurare la stabilità finanziaria degli atenei attraverso la dinamica pluriennale delle entrate e l’adozione sistematica del metodo della programmazione; garantire l’effettiva applicazione delle regole di sana gestione degli atenei; rafforzare i meccanismi di incentivazione dei comportamenti virtuosi.
Università e privati
Dobbiamo, quindi, imparare a drenare risorse dall’esterno. Sono ben consapevole che è relativamente diffusa una singolare idea e cioè che, se noi ci facciamo finanziare da privati, l’Università diventerà privata. Ritengo che sia una ben peregrina concezione questa e che non possa rappresentare un ostacolo nei confronti di una necessaria opera di autofinanziamento – già di per sé difficile – rispetto al trasferimento di fondi dallo Stato, che non ne ha più. Per esempio, noi abbiamo continuato a finanziare pesantemente la ricerca con fondi di Ateneo. Dobbiamo dirci con chiarezza (e ciascuno deve rendersene conto) che questo non sarà più sufficiente e che in tutti gli ambiti disciplinari ci si dovrà rivolgere a finanziamenti esterni, in linea con le scelte operate dal CNVSU in relazione alla quota variabile di FFO che privilegia il successo ottenuto da progetti presentati su bandi ministeriali ed internazionali soggetti a peer reviewing. La ricerca finanziata da un Ateneo, tranne rarissime eccezioni, per definizione rischia di essere autoreferenziale. Naturalmente questo non significa che i Dipartimenti non debbano poter disporre di dotazioni con le quali concorrere alla realizzazione di grandi progetti. Significa solo che il dovere di fare ricerca va interpretato come il dovere di fare ricerca di qualità, che contribuisca al progresso delle conoscenze internazionali piuttosto che ad alimentare i bollettini delle società scientifiche locali.
La nostra università
Anche per la nostra Università comincia ora un lavoro ben più impegnativo di quanto è stato fatto fino alla fine del 2010. Fino ad ora abbiamo operato prevalentemente operazioni difensive, nel senso che abbiamo dato una nostra personale e, credo di poter dire, virtuosa, interpretazione dei vincoli di varia natura non voluti da noi, che ci hanno costretto a ridurre la spesa. L’abbiamo fatto bene, siamo rifuggiti dalla pedissequa replicazione di tagli lineari, siamo riusciti a mantenere quote non trascurabili di fondi discrezionali. Ma, in ogni caso, abbiamo solo difeso il nostro status. Da oggi ciò non sarà più sufficiente. Il secondo livello di azione riguarda il nostro obbligo di cercare all’interno del territorio regionale – o forse anche interregionale – quelle sinergie che consentano di riprogrammare negli ambiti che più volte ho citati – formazione superiore, ricerca, innovazione – un nuovo ruolo dell’Università di traino per lo sviluppo, per dare opportunità ai nostri giovani. Io sarei personalmente più che disponibile ad individuare, anche nel nostro Ateneo, un’area didattica ampia distinta da un’area di ricerca scientifico-tecnologica più ristretta, condivisa con altri Atenei del nostro territorio. Come vedete l’idea di un Politecnico del Veneto o del Triveneto almeno personalmente non la do per archiviata. Infine, dovremo riuscire a produrre all’interno della nostra sede e anche del nostro contesto territoriale – verso il quale abbiamo avviato una non sporadica attività di apertura e dialogo indirizzata in particolare al sostegno ed allo sviluppo della ricerca, creando il NUA, Network Università-Aziende, una più solida coscienza del fatto che, per essere in grado di dare risposte vere a quei ragazzi che protestano perché sono disillusi, dovremo certamente innovare anche al nostro interno. Il come va deciso collegialmente. Se gli universitari veronesi fossero disponibili, perché non iniziare a tenere periodiche riunioni di studio, di approfondimento delle criticità, di identificazione degli ambiti di possibile miglioramento ed innovazione delle tre funzioni dell’Università di Verona? Ho già proposto al Senato Accademico la proposta di scrivere, anche ricorrendo ad esperienze esterne, una sorta di libro bianco che consenta a noi stessi – o a chi verrà dopo di noi – di formulare ipotesi veramente innovative verso nuovi livelli di qualità per l’apprendimento, verso ricerca scientifica integrata con approcci multidisciplinari – secondo un modello che anche nella nostra esperienza si è dimostrato premiante – e verso collaborazioni strutturali con il mondo produttivo che ha tanto bisogno di noi quanto noi ne abbiamo di lui, nell’interesse delle generazioni future?
Le conquiste
E’ doveroso sottolineare cosa in questo Ateneo, con il concorso degli attuali organi di governo e di una ottima amministrazione, è già stato conquistato:
· Una profonda revisione dell’assetto dipartimentale che ha ampiamente preceduto i contenuti della legge di riforma, dando un significato disciplinare alle strutture decentrate, anticipando e semplificando l’altrimenti complesso processo di revisione dello statuto.
· La difficile, complessa ma indispensabile costituzione della Azienda Ospedaliero-Universitaria Integrata che ha comportato un radicale cambiamento culturale nella Facoltà di Medicina e che ora esige che le forze politiche e l’amministrazione regionale abbiano una visione altrettanto aperta, perché il mutamento culturale deve essere parte essenziale dell’integrazione, con una comune funzione, comuni opportunità e comuni riconoscimenti per tutti gli attori del nuovo sistema.
· Investimenti d’eccellenza. Recentemente lo SCImago Research Group – uno dei più prestigiosi sistemi di misurazione e valutazione degli Atenei – che si dedica in modo esclusivo alla misurazione e all'impatto internazionale dei prodotti della ricerca scientifica ha pubblicato il suo report per il 2010. Dai dati in esso riportati emerge innanzitutto che le Università italiane, se valutate su parametri oggettivi desunti dal principale database internazionale, Scopus, che misura numero e qualità dei prodotti scientifici, si colloca all’8° posto al mondo davanti ad Australia, Olanda, Spagna, Svizzera e Svezia per volume di prodotti. Se ne viene valutata la qualità attraverso un popolare indicatore, l’hindex, l’Italia risale al 7° posto superando la Cina. E in questo report l’Università di Verona tra 2833 istituzioni internazionali è stata posizionata con un indice d'impatto pari a 1.52 rispetto ad un valore medio d'impatto mondiale eguale ad 1, emergendo per la qualità della ricerca scientifica prodotta ai massimi livelli nazionali. A Verona abbiamo già le capacità per competere. Non ne abbiamo i mezzi. Se, come io ritengo sia giusto, si vuol correggere la frammentazione delle attività di ricerca e la polverizzazione delle dotazioni, sono convinto che in maniera più o meno dichiarata le Università sono pronte. La nostra lo è. Non possiamo però essere lasciati soli in questa difficile operazione. Ci vuole un chiaro intervento di facilitazione, di incentivazione da parte dei governi nazionale e regionali, dai quali devono giungere indicazioni forti.
· E’ stata deliberata la attuazione dell’Agenzia nazionale di valutazione. Bene, noi chiediamo di essere valutati, convinti del fatto che non si possono più accettare giudizi sommari senza riscontri oggettivi sulla qualità della nostra Università.
· Il problema più impegnativo, però, non risiede tanto nella legge 240, quanto nei provvedimenti finanziari che solo consentono di realizzarne l’impianto dichiarato come meritocratico, incompatibile con la logica dei tagli lineari. Sono ancora convinto che il cosiddetto progetto Muraro sia la migliore strada da percorrere, tenendo conto della necessità prevista dalla legge 240 di stanziare subito i fondi necessari per i concorsi di seconda fascia, di finanziare il Fondo per il merito agli studenti, di finanziare, come noi abbiamo già avviato, il Fondo premiale per i docenti, cioè quegli interventi che rappresentano parte degli elementi positivi della legge.
· Si aggiunga inoltre un altro aspetto importante, quello di introdurre la differenziazione di stipendio basata sul merito e non sull’anzianità.
· La semplificazione delle strutture, motivata soprattutto da esigenze di risparmio sui costi amministrativi e di personale, nonché dalla necessità di conseguire maggiore gestibilità e raccordo tra organi centrali da un lato ed organi periferici dall’altro, sancisce la centralità dei Dipartimenti come struttura di base dell’assetto organizzativo interno degli Atenei. Il Dipartimento viene concepito più che come un luogo di ricerca, come luogo dell’identità disciplinare, nel quale, in una situazione di scarse risorse ed in un clima sempre più competitivo, il Dipartimento sarà chiamato in prima persona a migliorare la propria produzione scientifica.
· Bisogna superare una logica di programmazione, prevalentemente – se non esclusivamente – finanziaria: nonostante l’attività previsionale sia prassi amministrativa consolidata nelle Università, è ormai necessaria un’effettiva adozione di idonei strumenti di programmazione e valutazione delle performance. E’ evidente che la attuale imprescindibile situazione di restrizione finanziaria deve essere affrontata, da un lato, con la necessaria autonomia di scelta richiesta dalla attuazione di indirizzi alternativi, esenti da vincoli burocratici, ma dall’altra da un sistema di governance sbloccato dall’attuale dualismo, all’interno del quale i profili di governo siano ben definiti in attuazione dei contenuti della legge di riforma che assegna chiare competenze di indirizzo strategico al Consiglio di Amministrazione.
Affronteremo ora la revisione dell’attuale statuto senza derive di tipo centralistico che potrebbero reprimere la voce del corpo accademico. Deve avvenire l’opposto e cioè che tutte le voci dell’Ateneo possano farsi sentire in ragione della qualità dei messaggi che trasmettono piuttosto che dell’appartenenza ad una categoria di diritto più qualificata.