L’utopia sionista di Ben Gurion che prevedeva uno stato di Israele libero e aperto a tutti è tramontata sul nascere e da oltre mezzo secolo la Palestina è focolaio di conflitti insanabili all’interno dei quali, a tratti prende corpo, anche un nuovo antisemitismo. Il diritto di esistere dello stato di Israele è fuori discussione, sebbene vi sia chi continua a metterne in dubbio la legittimità, così come è indiscutibile il diritto del popolo palestinese ad avere una patria che non sia un ghetto militarizzato. Con l’eliminazione di Itzhak Rabin e di Yasser Arafat sono venuti meno gli artefici principali di un difficile e faticoso processo di pacificazione, portato avanti da Shimon Peres e Abu Mazen con molta minor efficacia, ma contrastato soprattutto all’interno dei singoli schieramenti. Oggi infatti la forza maggiormente rappresentativa del mondo palestinese non è più la moderata Al Fatah, ma l’estremista Hamas, a sua volta in crisi e scavalcata da gruppi terroristici islamisti pronti ad alimentare il conflitto a tutti i costi. Analogamente in Israele il partito Laburista è sempre più incapace di esprimere una politica di pace, mentre il Likud di Netanyahu vede svilupparsi alla sua destra formazioni guerrafondaie e oltranziste decise a chiudere definitivamente la partita con i palestinesi. Per decenni alle spalle dei palestinesi stava il cosiddetto “mondo arabo” rappresentato da stati e governi dalle politiche certo discutibili, ma chiare. Ora quel mondo non c’è più e – salvo l’Iran – tutto il mondo arabo è una polveriera in ebollizione e un coacervo di fazioni in lotta fra loro, con prevalenza dell’estremismo islamista.
La crisi di queste settimane è anche il risultato di una crisi di leadership di entrambe le parti e di una radicalizzazione estrema delle posizioni che ha trovato nella morte atroce dei tre ragazzi israeliani rapiti la sua giustificazione. Alla quale qualcuno ha subito reagito cospargendo di benzina e bruciando vivo un ragazzo palestinese. I lanci di missili su Israele e i raid aerei su Gaza e la Cisgiordania, con il loro strascico di morte, sono cronaca quotidiana. La striscia di Gaza da territorio palestinese indipendente è ormai diventata una piattaforma missilistica dotata di arsenali di provenienza iraniana, libica e siriana, mentre Israele torna ed essere, come nel passato, un bunker difeso con ogni mezzo e pronto a scatenare una guerra punitiva contro i suoi nemici. Anche il vecchio motto “il numero è potenza” torna drammaticamente di attualità. Il fattore demografico, infatti, aggrava la situazione in presenza di un aumento esponenziale della popolazione palestinese, ammassata dei territori, mentre in Israele si paventa il calo demografico. Anche se gli abitanti della striscia di Gaza fossero annientati e il territorio rioccupato dagli israeliani il mondo palestinese continuerebbe, inesorabilmente, a stringere d’assedio Israele. Obiettivi militari e civili sono impossibili da distinguere e qualsiasi azione bellica è destinata a produrre vittime civili.
Difficile immaginare una soluzione del problema palestinese se non tornando testardamente a riproporre, ma in un contesto molto aggravato, la soluzione dei due stati indipendenti fondati di un patto di pace e disarmo reciproco sotto tutela internazionale. Se l’Europa fosse capace di esprimere una sua politica estera, forse, questa sarebbe l’occasione per intervenire.
Gian Paolo Romagnani
16.07.2014