Introduzione
Ho iniziato il mio incarico di rettore nell’ottobre del 2013. E’ quindi poco più di un anno che lavoriamo insieme e condividiamo l’impegno di confermare e incrementare la qualità del nostro ateneo. Un lavoro a volte arduo ma non di meno bello e entusiasmante, al quale ci sprona, fra l’altro, il risultato delle recenti classifiche degli atenei italiani, che ci vedono spesso in buona posizione. Nel caso della classifica del Sole-24ore, addirittura al primo posto tra gli atenei statali, a pari merito con Trento. Altro elemento di incoraggiamento e conferma del nostro lavoro è il dato dell’immatricolazione per l’Anno Accademico in corso, che registra una netta crescita, a volte veramente notevole, in pressoché tutti i settori. Non voglio quindi, oggi, perdere l’occasione per ringraziarvi, di tutto cuore, del vostro impegno: docenti e personale amministrativo e tecnico, dipartimenti e uffici, senato accademico e consiglio di amministrazione.
L’elenco appena fatto ha ovviamente il limite di nominare gli organi e gli uffici in cui si articola il governo della nostra università. Superando l’astrattezza delle categorie generali, vorrei ringraziare ciascuno e ciascuna di voi singolarmente, nella concretezza e nella serietà del suo impegno quotidiano, là dove investe le sue competenze con generosità, e lo fa condividendo un progetto della comunità. I cui protagonisti, non dimentichiamolo, sono gli studenti: a loro va quindi il mio più caloroso saluto e la promessa, che assumo a nome di tutti voi, di fare del nostro meglio per formarli nel presente, valorizzando i loro talenti, affinché possano realizzare le loro giuste aspirazioni nel futuro non facile che li attende.
L’università è un luogo nel quale, per definizione, giovani vite e vite con più lunga – e qualche volta addirittura annosa – esperienza si incontrano e si mescolano. Questa mescolanza, questo scambio fra giovani e meno giovani, fra curiosità e maturità, fra ambizioni e competenze, è il senso della comunità. Ed è proprio da questa angolatura di un senso profondamente condiviso che, secondo me, possiamo connettere la comunità universitaria alla realtà, ben più vasta e complessa, del mondo.
Le principali azioni intraprese
Le azioni intraprese in questo primo anno sono volte a raggiungere obiettivi apparentemente in antitesi: rafforzare il legame con il Territorio; rafforzare le relazioni internazionali. Da un lato è nostro dovere far conoscere le nostre attività, divulgare le conoscenze, contribuire allo sviluppo del Territorio. Dall’altro i saperi non hanno confini, in ciò facilitati da continui progressi nelle tecniche di comunicazione. Dal confronto e dalla collaborazione con le migliori realtà internazionali nascono nuovi stimoli, si espandono le occasioni di collaborazione e i saperi.
Non è questa la sede adatta per una dettagliata elencazione delle varie azioni intraprese. Sul fronte dell’internazionalizzazione della didattica e della ricerca voglio tuttavia sottolineare che per gli accordi Erasmus con atenei di 28 paesi europei, cui si aggiungono accordi, fatti in autonomia dalla nostra università, con partner in Australia, Brasile, Canada, Corea del Sud, Messico, Russia e Stati Uniti d’America nel programma Worldwide Studies, l’ateneo ha stanziato complessivamente circa 490 mila euro. Una cifra ulteriore e di poco minore è stata stanziata per programmi mirati a favorire l’internazionalizzazione della ricerca e della didattica, come il bando CooperInt e il bando Visiting e incentivazione dell’offerta formativa in lingua straniera. L’operazione, oltre a numerosi docenti e tecnici-amministrativi, ha coinvolto 426 studenti in uscita e 256 in entrata. Il nostro serio impegno per l’internazionalizzazione è testimoniato anche dal fatto che, ora, l’offerta formativa erogata interamente in lingua straniera si articola in 3 corsi di laurea magistrale e 5 corsi di dottorato di ricerca.
Sul fronte dei rapporti con il Territorio, anche grazie all’intenso lavoro e alle nuove linee strategiche dei Delegati e dell’ufficio comunicazione, si sono aperte ulteriormente le porte dell’Università ai nostri Concittadini che, rispondendo con entusiasmo al nostro invito, hanno potuto partecipare ad incontri, conferenze ed eventi culturali di altissimo livello scientifico. Cito, tra questi, in sinergia con vari Dipartimenti, due lezioni dei premi Nobel Omar Pamuk per la letteratura e James E. Rothman per la medicina. Hanno inoltre tenuto conferenze studiosi di fama mondiale come Jean-Luc Nancy, Serge Latouche e Giorgio Agamben. In collaborazione con il Conservatorio dall’Abaco, l’Accademia Filarmonica e la Fondazione Arena, e con la partecipazione dell’Esu, abbiamo inoltre voluto promuovere tra i nostri giovani la conoscenza della musica classica e jazz, ospitando quattro concerti, preceduti da un’introduzione dei nostri esperti ed aperti alla cittadinanza. Altri concerti ed eventi sono già in cartellone per il mese di dicembre, ultimo il concerto di Natale del 16 dicembre, che si terrà quest’anno non al teatro Ristori ma qui, al Polo Zanotto, per sottolineare la nostra volontà di accogliere i Concittadini nella sede universitaria per condividere, con sincero calore, gli auguri per le prossime feste e il nuovo anno.
Nell’ottica di una comunicazione continua e di una collaborazione fattiva con le comunità di riferimento – locali, nazionali e internazionali – l’ateneo sta inoltre attivando una serie di cartelloni, aggregati per aree tematiche, in cui la voce della ricerca universitaria può farsi conoscere e avere risalto, nei prossimi mesi anche grazie a un rinnovato sito internet. Un esempio sarà UniVerona for Expò in cui il nostro ateneo offrirà alla città e ai suoi ospiti una serie di eventi collegati a Expò 2015 Nutrire il Pianeta. Questa e altre manifestazioni per il prossimo anno sono infatti già in cantiere per ribadire il nostro obiettivo fondamentale: raccontare il lavoro e le eccellenze della nostra Università per aumentare l’interazione con la Città e con il resto del mondo.
Sono state avviate azioni per migliorare l’efficacia dell’attività didattica e la sua valutazione, la qualità della vita studentesca; per facilitare, anche attraverso l’uso dello strumento informatico, le possibilità di svolgere stages e tirocini adeguati al percorso di studi intrapreso. Sono attività molto impegnative anche se a volte poco visibili all’esterno. Sono stati inoltre potenziati gli strumenti, di cui si dirà più avanti, per favorire il trasferimento tecnologico.
Le nostre attività hanno beneficiato anche dei generosi contributi dati da istituzioni cittadine, che voglio ringraziare: Fondazione Cariverona, che ha finanziato 25 borse triennali di dottorato e alcuni importanti progetti di ricerca in campo biomedico; Banco Popolare; Cattolica Assicurazioni.
Sotto il profilo edilizio, è in fase di completamento il restauro del panificio S. Marta e un rilevante, anche sotto il profilo finanziario, programma di adeguamento di molti degli edifici esistenti alle nuove e più stringenti normative in tema di sicurezza. Il completamento del complesso edilizio della S. Marta consentirà una progressiva razionalizzazione nell’uso degli spazi esistenti e fornirà un rilevante impulso alla riqualificazione del quartiere di Veronetta. Il prossimo passo, che molto mi sta a cuore, nella direzione della riqualificazione del quartiere di Veronetta sarà il progetto della cosiddetta Grande Biblioteca della cui necessità, soprattutto per gli studi e la ricerca di area umanistica, sono più che convinto: abbiamo commissionato e stiamo valutando progetti alternativi che comportino un impegno finanziario adeguato ma non troppo pesante per le scarse risorse dell’Ateneo, in questo tempo di crisi. Costruire una biblioteca moderna e funzionale, mettendo i suoi volumi e i suoi spazi a disposizione non solo degli studenti e degli studiosi ma dell’intera cittadinanza, è, per l’Università e per Verona, un progetto importante, il cui impegno finanziario speriamo di condividere con altri soggetti. L’Università è un luogo fisico e culturale, particolarmente giovane e dinamico, che fa parte dell’organismo vivo della città: la sua crescita è la crescita di tutti.
Ricerca di base, ricerca applicata, trasferimento tecnologico.
Durante questo primo anno, numerose sono state le sollecitazioni – provenienti dal mondo delle imprese, delle banche e dai sindacati dei lavoratori- a contribuire al rafforzamento della competitività del sistema produttivo attraverso il trasferimento tecnologico. Enfasi pressoché esclusiva è stata posta alla ricerca applicata. Sono ovviamente d’accordo sull’importanza della ricerca applicata ma occorre fare molta attenzione affinché questa enfasi non vada a detrimento della ricerca di base. Cercherò di argomentare brevemente perché, non solo come rettore ma anche come studioso di scienza delle finanze con un occhio sempre attento all’economia.
Il nostro Paese non cresce più da circa quindici anni. La mancata crescita, in un contesto di progressivo invecchiamento demografico, impedisce che si generino le risorse finanziarie necessarie per mantenere i sistemi sanitari e di sicurezza sociale. In questo periodo una serie di mutamenti strutturali ha reso scarsamente competitiva l’economia italiana. Innanzitutto l’apertura dei mercati internazionali, con la conseguente entrata nell’area di libero scambio dei paesi dell’Europa dell’Est e della Cina. Il lavoro certo non è una merce, ma allo stesso tempo non si possono ignorare le pressioni derivanti da una rilevante crescita dell’offerta di lavoro. In seguito al dissolvimento dell’Unione Sovietica, alla decisione della Cina di liberalizzare l’attività economica e all’abbandono di un regime autarchico da parte dell’India, all’inizio di questo millennio la forza lavoro mondiale è aumentata di quasi 1,5 miliardi di persone rispetto a quanto si sarebbe osservato in assenza di questi tre grandi mutamenti (Sartor, 2010, p. 38). Non si tratta solamente di pressione al ribasso sui salari ma anche di una generale pressione sulla competitività del nostro Paese: gli enormi progressi nel campo delle ICT (Information and communication technology) consentono alle nuove economie, che stanno investendo in ricerca e in ammodernamento tecnologico molto più di quanto si faccia noi, di competere anche a distanza nell’offrire a condizioni vantaggiose servizi che non richiedono la presenza fisica in loco. In tale contesto non è pensabile che una economia possa migliorare la propria situazione attraverso la sola compressione dei costi: la differenza delle grandezze in gioco è tale per cui la compressione dei costi può, al massimo, rallentare il declino. È invece necessario il riposizionamento della propria attività; valorizzare e incrementare il patrimonio di cultura e di conoscenza. Il progresso nelle conoscenze unito a una disponibilità a innovare, accettando il rischio che ogni innovazione inevitabilmente comporta, sono indispensabili.
La diffusa percezione che ciò che conti sia solo la ricerca applicata è pericolosa. Altre due attività sono di cruciale importanza. A monte, la ricerca di base, senza la quale non può nascere alcuna idea innovativa e a cui la ricerca applicata è legata da uno stretto rapporto di complementarietà. A valle, il cosiddetto trasferimento tecnologico o meglio, più in generale, il trasferimento delle conoscenze dal settore della ricerca al settore produttivo. Esso non è un fenomeno spontaneo, richiede adeguate strutture e specifici programmi. Come ricorda Luciano Gallino (2003, p. 101), “Il mercato – là dove esiste, là dove funziona – può sanzionare a posteriori, positivamente o negativamente, una politica messa in atto, ma non può farla nascere con i propri automatismi. Alcuni dei più vistosi successi del mercato degli ultimi decenni hanno in realtà dietro di sé la mano pubblica”.
La ricerca di base costituisce tra tutte le forme d’investimento quella più incerta. Essa produce effetti in tempi lunghi e sovente in direzioni non attese. Per tali motivi non è pensabile che chi, impresa o intermediario finanziario, impiega i propri mezzi contando su rendimenti certi nel breve o nel medio periodo possa darsi carico della ricerca di base. Ciò è vero in tutto il mondo. Anche istituzioni da noi pressoché assenti ma assai diffuse nel Nord America, quali i fondi di venture capital, non sono disponibili a finanziare la ricerca di base in quanto hanno orizzonti d’investimento che si collocano attorno ai 5 anni; essi, inoltre, prediligono aree a bassa complessità tecnologica e bassa intensità di capitale e intervengono tipicamente nella fase di prossimità dell’ingresso nel mercato.
Un episodio risalente agli anni Ottanta è assai rappresentativo della situazione generale. “Durante una visita negli Stati Uniti nel 1984, il presidente francese Mitterrand si è fermato a visitare la Silicon Valley californiana, nella speranza di capire qualcosa di più della combinazione di ingegno e spirito imprenditoriale che ha portato alla nascita di un così gran numero di imprese in quell’area. Durante un pranzo un socio di un fondo di venture capital attivo nel campo della genomica stava decantando i meriti degli investitori amanti del rischio che finanziano le imprese quando è stato interrotto dal professore di Stanford Paul Berg, insignito del premio Nobel per le ricerche nel campo dell’ingegneria genetica, che gli ha chiesto: “Dov’eravate negli anni Cinquanta e Sessanta, quando era la scienza di base che andava finanziata? Quasi tutte le scoperte su cui si regge il settore sono state fatte allora” (citazione dal Washington Post riportata in Mazzucato, 2014, p. 83).
Il processo d’innovazione presenta tre caratteristiche che lo rendono poco appetibile al privato: è collettivo, cumulativo e incerto. Sull’incertezza si è già detto. Il processo è collettivo in quanto richiede la cooperazione di diversi soggetti, diversi tipi di finanza e diversi tipi di politiche e di istituzioni. Cumulativo in quanto l’investimento in innovazione si cumula a quelli precedenti e produce risultati che dipendono dalle precedenti innovazioni. Chi riesce a innovare otterrà la leadership per un lungo periodo (il cosiddetto “vantaggio del pioniere”).
Purtroppo negli ultimi anni le risorse pubbliche destinate alla ricerca di base si sono ridotte: praticamente esaurite nel nostro Paese, a causa dell’eliminazione dei progetti cosiddetti “PRIN” (Programma di ricerche d’interesse nazionale) e con il probabile ridimensionamento, se non addirittura abolizione, dei progetti FIRB (Fondo per l’innovazione e la ricerca di base). Anche a livello comunitario la predominanza dei fondi per la ricerca è destinata alla ricerca applicata. È inoltre assente la politica industriale, intesa come insieme di politiche attive che orientino l’innovazione del settore privato in direzioni coerenti agli obiettivi generali e non nel senso deprecabile di tenere in piedi imprese decotte definendole arbitrariamente “strategiche” per il Paese. Come ricorda Mariana Mazzucato, negli Stati Uniti, paese erroneamente percepito come liberista, “lo Stato ha finanziato attivamente ricerche radicali nelle fasi iniziali e ha creato le reti di interazioni pubblico-privato indispensabili per agevolare lo sviluppo commerciale” (Mazzucato, 2014, pp. 117-8).
Rispetto all’appello a un maggiore investimento in ricerca di base è facile immaginare l’obiezione fondata sulla scarsità delle risorse a causa della crisi della finanza pubblica. Altrettanto facile, anche se sconfortante, è la risposta. In Italia le risorse finanziarie ci sono, ma sono spesso sprecate sotto forma di corruzione e di evasione fiscale. Il Procuratore generale della Corte dei Conti ha riportato una stima della corruzione pari a circa 60 miliardi di euro annui (Corte dei Conti, 2012, pp. 100-1): trattandosi di fenomeni illeciti, la loro quantificazione è particolarmente ardua. Ma se la dimensione del fenomeno fosse anche solo un decimo rispetto a quanto citato, essa sarebbe circa pari a quanto il Paese destina al finanziamento del sistema universitario. Circa l’evasione, si pensi ai 36 miliardi di minore gettito relativi alla sola imposta sul valore aggiunto (Chiri e Sestito, 2014). Al di là di ogni considerazione di tipo etico, è chiaro che profondamente diverso è l’impiego dell’illecita accumulazione. Usando un eufemismo e facendo ricorso alla distinzione tra classi sociali utilizzata per caratterizzare il fenomeno della rivoluzione industriale di fine Settecento, potremmo affermare che la diversità è la stessa che contraddistingue un rentier da un imprenditore. Se un numero crescente di soggetti ritiene di poter risolvere individualmente le proprie difficoltà ciò alla fine determinerà il definitivo declino del Paese. Si tratterà, in questo caso, delle conseguenze involontarie di azioni volontarie.
La differente attitudine italiana nell’individuare il sentiero che porta allo sviluppo emerge, con grande valore simbolico, dal confronto di alcuni dati relativi all’Italia e alla Germania spesso citati da Stefano Paleari, presidente della Conferenza dei rettori delle università italiane: in termini pro capite, l’Italia destina 100 euro al sistema universitario, 300 euro al gioco d’azzardo (lotto, lotterie, etc.); la Germania 300 euro al sistema universitario, 100 al gioco. Appare in tutta evidenza la differenza di come i cittadini delle due nazioni cercano di “scommettere” sul proprio futuro.
Ma la ricerca di base, da sola, non riesce a generare ricchezza (materiale o immateriale, sotto forma di arricchimento del patrimonio culturale) se non viene posta adeguata attenzione alla sua diffusione. La facilità con cui avviene l’applicazione concreta delle nuove conoscenze dipende anche dalla maggiore o minore propensione delle imprese ad affrontare i rischi dell’innovazione. Due diverse testimonianze possono ben esemplificare la situazione, non sempre felice.
La prima, riferita all’Italia, risale agli anni a cavallo tra i Cinquanta e i Sessanta del secolo scorso. Nel 1955 Adriano Olivetti, nel tenere il tradizionale discorso di fine anno agli “amici lavoratori” [così come lui li chiamava – NdR] degli stabilimenti di Ivrea, annunciava una novità: “Nel campo dell’elettronica lavoriamo metodicamente da quattro anni dedicandoci a un ramo nuovo, il calcolo elettronico”. Un anno prima, nel 1954, l’Olivetti aveva siglato con l’Università di Pisa un accordo per costruire unitariamente un calcolatore elettronico. Verso la fine del 1959 venne prodotto il primo calcolatore elettronico mainframe. Negli anni successivi sarebbe stato prodotto il primo calcolatore elettronico “personale” del mondo (la “Programma 101”). In seguito alla prematura scomparsa di Adriano Olivetti, avvenuta nel 1960, il presidente del più grande gruppo industriale automobilistico italiano, che deteneva una partecipazione nella società, nel 1964 ebbe a dire: “La società di Ivrea è strutturalmente solida e potrà superare senza grosse difficoltà il momento critico. Sul suo futuro pende però una minaccia, un neo da estirpare: l’essersi inserita nel settore elettronico, per il quale occorrono investimenti che nessuna azienda italiana può affrontare” (Gallino, 2003, pp. 15-20).
La seconda, assai più recente, è riferita da un illustre veneto a cui questo ateneo ha avuto l’onore di conferire nel 2009 la laurea honoris causa in informatica. Federico Faggin, in un’intervista rilasciata a un quotidiano nazionale lo scorso 10 novembre, alla domanda del giornalista che gli chiedeva “E ai touch-screen come siete arrivati?” rispondeva: “Grazie a questi progressi: avevamo ottenuto già il controllo del cursore con il movimento delle dita da qualsiasi punto della superficie nel pad. Con la stessa tecnologia abbiamo provato a realizzare i sensori in vetro o materiale plastico. Un sensore trasparente avrebbe permesso di navigare sullo schermo, lo avevamo previsto dall’inizio. Ma le innovazioni non sempre sono capite dall’industria”. [omissis] “Avevamo la tecnologia pronta. Ma quando ho cominciato a proporlo ai produttori di cellulari, nessuno voleva prendere il rischio di introdurlo. Temevano i costi invece di vederne l’opportunità”.
Nel campo della ricerca applicata e dello sfruttamento industriale delle innovazioni tecnologiche le storie di successo sono legate alla presenza di un livello d’istruzione medio-alto. La presenza di numerose micro-imprese talvolta associata a una bassa scolarità dei loro titolari rende la situazione problematica. Un recente studio condotto dall’IRVAP di Trento sugli effetti dell’introduzione della banda larga internet sui volumi d’affari delle microimprese trentine ha messo in luce come la disponibilità di connessione a internet in banda larga non produce effetti significativi sul fatturato dell’insieme delle microimprese, né su quello delle aziende guidate da un titolare con basso titolo di studio. Essa ha, invece, influenzato positivamente il volume d’affari delle ditte al cui capo sta un soggetto con buoni livelli di scolarità, con effetto nei primi 30 giorni di attivazione pari al 4,7% di incremento del volume d’affari, percentuale che si eleva al 19% dopo 18 mesi (Canzian et al., 2014, p. 10).
Come agire? Servono programmi nazionali o comunitari. Gli interventi, aventi la stessa finalità di agevolare il trasferimento delle conoscenze, possono riflettere situazioni e contesti assai diversi tra loro. A un estremo, interventi di pianificazione globale, quale quello attuato nella Corea del Sud che prevede la compresenza nel campus di dipartimenti universitari e imprese. All’altro, l’istituzione di agenzie, quali le americane ARPA e DARPA (rispettivamente Advanced Research Projects Agency e Defence Advanced Research Projects Agency), che hanno lo specifico scopo di utilizzare risorse pubbliche orientandole verso aree e destinazioni specifiche, di regolare le interazioni tra gli operatori pubblici e privati coinvolti nello sviluppo tecnologico e facilitare la commercializzazione.
In assenza di adeguate politiche pubbliche, ogni centro di ricerca dovrà fare il possibile per facilitare il trasferimento delle innovazioni. L’università di Verona ha all’attivo quattro principali iniziative, cui si aggiungono le attività nel campo della ricerca traslazionale di tipo biomedico e clinico svolte all’interno dell’Azienda ospedaliera universitaria integrata.
- È stata potenziata la dotazione finanziaria destinata al cofinanziamento di ricerche che si basino sulla collaborazione tra nostri gruppi di ricerca e soggetti esterni. Nel 2014 i fondi di ateneo destinati al programma cosiddetto Joint Projects sono stati pari a 900 mila euro e hanno consentito l’avvio di 28 progetti. Grande soddisfazione deriva dal fatto che i progetti ritenuti finanziabili dagli anonimi valutatori esterni sono stati pari a 62, segno di un crescente interesse che il Territorio attribuisce a questa nostra iniziativa.
- Il nostro regolamento per la costituzione di spin-off universitari è stato adeguato all’evoluzione normativa ed è stata costituita una Commissione istruttoria al fine di valutare nel merito le proposte: in quest’anno sono sorte 6 nuove iniziative, che si aggiungono alle 10 esistenti.
- È stato costituito il Computer science park che ha lo scopo di: promuovere il trasferimento tecnologico in tutti i campi dell’Information and Communication Technology (ICT); incentivare la creazione di spin off e attrarre start-up; consentire la collaborazione con gli uffici tecnici di aziende che intendono incrementare il livello tecnologico dei loro prodotti. Ad oggi 7 aziende fanno parte del “Parco”.
- È di recente costituzione il Polo vitivinicolo di S. Floriano che vede la collaborazione tra Fondazione Cariverona, Provincia, Camera di Commercio I.A.A. ed Ente Fiera al fine di promuovere, anche in campo internazionale ma in stretto contatto con i tre Consorzi della provincia veronese, la diffusione della conoscenza e la valorizzazione della filiera del vino. Il Polo ha il compito di individuare e cofinanziare ricerche che consentano di migliorare le attività e sarà pienamente operativo all’inizio del 2015.
Insieme a queste attività non va sottovalutato il contributo che l’università fornisce attraverso il completamento della formazione delle giovani generazioni cui spetterà il principale compito di applicare quotidianamente e trasferire negli ambienti di lavoro e nella società i nuovi saperi e le nuove competenze. Essi costituiscono la vera cinghia di trasmissione dello sviluppo civile e sociale. Ed è proprio in riferimento a questo sviluppo civile e sociale, anzi, a questa esigenza di migliorare il modello di una democrazia matura sostenuta da cittadini responsabili, che gli studi di area umanistica svolgono un ruolo decisivo.
Circola da tempo – e si è particolarmente rafforzata in tempi recenti – una pessima retorica che denuncia gli studi umanistici come inutili perché improduttivi. Non è vero. Almeno per due ragioni.
La prima ragione sarà resa evidente dall’intervento della professoressa Tiziana Franco sul tema “Ricerca e beni culturali. Studiare, documentare e valorizzare il patrimonio artistico” che ascolterete fra pochi minuti. Lo studio dell’arte e della storia dell’arte – che può essere preso come caso esemplare della ricerca di base in area umanistica – ha una ricaduta produttiva immensa e preziosissima sul territorio e sul paese, soprattutto su un paese come il nostro, per il quale i beni culturali costituiscono una delle poche ricchezze, per di più straordinarie e abbondanti, a disposizione, e l’ovvio volano per il mercato turistico. Non solo l’arte ma la cultura umanistica in complesso e nel suo dettaglio – la letteratura, la storia, la tradizione – sono il nostro patrimonio, sono Verona, l’Italia, l’Europa, siamo noi: l’identità – profonda, plurivoca e tuttavia inconclusa, aperta – che ci distingue e che ci rende interessanti al mondo. Qualcuno ha detto che i moderni sono nani sulle spalle dei giganti. Per noi contemporanei – e le nuove generazioni, gli studenti sono contemporanei per definizione – il problema non è tanto quello di indentificare i giganti ma di non dimenticarci di poggiare su qualcosa di affidabile per prendere lo slancio. Non ci si libra nel cielo del futuro senza un punto di appoggio per lo slancio. Chi pretende di slanciarsi senza punto di appoggio rischia di volare nel vuoto, un vuoto più adatto all’inconsapevolezza programmata degli automi che non alla responsabilità consapevole degli umani o, se volete, dei cittadini e delle cittadine di una democrazia matura in quel cuore del mondo che, è per noi, l’Europa e il suo patrimonio culturale.
La seconda ragione è un po’ paradossale ma tuttavia degna di esser menzionata. Ciò che va sotto l’etichetta di una certa costitutiva inadeguatezza degli studi umanistici rispetto alle leggi incontrovertibili del mercato e del profitto può, in realtà, anche essere letto come un prezioso punto di resistenza nei confronti della mitologizzazione del mercato e del profitto stesso. C’è la necessità di un giusto profitto, inteso come remunerazione del capitale investito in attività imprenditoriali, e, pragmaticamente, bisogna tenerne conto. In molti casi, il mercato rappresenta la forma più efficiente per organizzare produzione e scambi. Ma anche i mercati, come l’azione pubblica, possono “fallire”. Nessun assetto istituzionale va quindi mitizzato. Essere pragmatici senza mitologizzare è una strategia indispensabile per far fruttare, in favore dei nostri giovani, le regole del mercato del lavoro. Scambiare queste regole per una metafisica può essere invece controproducente. Quindi atteniamoci alla prassi ma non anestetizziamo il nostro senso critico e, soprattutto, facciamo in modo che esso non si anestetizzi nei nostri studenti. Come ha recentemente suggerito la Senatrice prof.ssa Elena Cattaneo, cui siamo grati per onorarci della sua attiva presenza, sarebbe anzi auspicabile che in ciascun corso di studi fosse presente almeno un insegnamento di “Critica”.
Con questo appello ad essere criticamente pragmatici e ad avere sempre in mente il futuro delle giovani generazioni, operando per lo sviluppo civile, economico, sociale e culturale del mondo che accoglierà le loro aspirazioni e i loro talenti, dichiaro aperto l’anno accademico 2014-2015.
Nicola Sartor
04/12/2014
Riferimenti bibliografici:
Elena Cattaneo, La Critica come materia, Il Sole 24 ore, 30 novembre 2014.
Salvatore Chiri e Paolo Sestito, Audizione nell’ambito dell’indagine conoscitiva sugli organismi della fiscalità e sul rapporto tra contribuenti e fisco, 6° Commissione (Finanze e tesoro), Senato della Repubblica, Roma, 5 marzo 2014.
Corte dei Conti, Relazione scritta del Procuratore generale, Inaugurazione dell’anno giudiziario, Roma, 2012.
Giulia Canzian, Samuele Poy e Simone Schueller, L’impatto della diffusione di internet ad alta velocità sulle prestazioni economiche delle imprese trentine, IRVAPP, Fondazione Bruno Kessler, Trento, Rapporto di ricerca, settembre 2014.
Federico Faggin, Intervista, Corriere Economia, 10 novembre 2014, pag. 22.
Luciano Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale, Giulio Einaudi editore, Torino, 2003.
Mariana Mazzucato, Lo Stato innovatore, Editori Laterza, Roma-Bari, 2014.
Nicola Sartor, Invecchiamento, immigrazione, economia, il Mulino, Bologna, 2010.