Si è tenuta sabato 28 febbraio la giornata in memoria di Antonio Tessitore. Lo ricorda in questo editoriale Alessandro Lai.
Quando, dieci giorni prima del Suo ultimo compleanno di un anno fa, andai a trovare il Professore – costretto a quel letto di rianimazione da oltre ottanta giorni, l’addome sempre aperto per tutto quel tempo e la trachea trafitta perché potesse respirare, la voce che diveniva comprensibile solo a chi lo conosceva molto bene, il contatto esclusivo con la famiglia e con pochissime persone fra cui noi della Sua scuola, Lui che era abituato ad essere sempre per tutti e con tutti – quando Lo andai a trovare dicevo, Lo trovai desideroso di assicurarsi che i lucidi pensati per il “Suo” corso venissero tempestivamente corretti: si rendeva conto che non li avrebbe usati (fino ad un mese prima invece, in quello stesso letto, ci aveva creduto) e dunque non riteneva giusto che ci fosse qualcosa di non aggiornato, all’insaputa del Collega che li doveva proiettare.
Non smetteva il Professore, neanche lì, di condividere con chi gli stava accanto il Suo percorso di studio e di vita, perché studio e vita stavano in Lui in modo immanente, senza soluzione di continuità, così legati che, se Lo si chiamava per chiedergli qualche consiglio, pur di dartelo in tempo utile, non ti diceva nemmeno che stava pranzando. Parlava con te e basta: che lo avevi interrotto lo scoprivi forse il giorno dopo, forse. “La disturbo Professore?” – “Non mi disturbi mai, Alessandro”.
Era, la Sua, una vita assolutamente programmata e al contempo profondamente libera, libera persino dalla programmazione che Lui stesso si dava. L’ho capito dall’estate del 1981 quando, un mese dopo aver superato con Lui l’esame di Ragioneria II, al terzo anno di Economia e Commercio, gli avevo chiesto la tesi. Mi aveva detto di andarlo a trovare a Oliosi (dove in quel tempo abitava a casa Tantini). Già la cosa mi sembrava inusuale perché accedere all’abitazione di un professore era per me al di là di ogni possibile aspettativa: ma ciò aveva reso facile fin da subito lo scambio di una rispettosa confidenzialità (in tutte e due le direzioni, sebbene il Professore mi abbia dato del “Lei” fino a quando non divenni associato) che è andata crescendo fino al 28 febbraio dell’anno scorso. E che faccio fatica a credere si possa essere interrotta.
Sulla porta della sala dove stava studiando e dove mi riceveva, appesa ad un chiodo, il programma della giornata su un foglio di quaderno scritto a mano, come un editto: sveglia alle 6.30, poi colazione, poi si portavano i bambini ad alcune attività organizzate, poi studio, poi, pranzo, poi, poi … fino alla sera dove c’era un concerto. Chi lo conosce sa bene che la Sua libertà era fatta di programmazione, ne aveva bisogno per acquisire la serenità e quella elasticità nei comportamenti che si rifletteva nel modo con cui annotava e cancellava minuziosamente i Suoi impegni nella agendina, per ri-regolarsi. E così, con l’agendina sempre piena, pienissima, perché lui scriveva tutto ma proprio tutto, trovava sempre uno spazio. Per ciascuno che glielo chiedesse e ne avesse bisogno.
Studio e vita si intrecciavano in quel caldo pomeriggio estivo di Oliosi, insieme ai biscotti, al the e a un succo di frutta che Tata aveva preparato in previsione del mio arrivo, come poi sempre ha fatto nei tanti sabati pomeriggio dei miei vent’anni, fino a quando non ho incontrato mia moglie. Negli incontri di Oliosi, la cornice delle cicale accompagnava la riprogettazione dei corsi, l’impianto delle ricerche, la revisione dei miei primi lavori, la Sua presentazione a me (a me dico, allora poco più che ventenne ) dei Suoi scritti. E al momento della riflessione con me e dello studio insieme, fuori tutti: “Hic sunt leones”, aveva scritto alcuni anni prima quando, in procinto di completare una monografia, d’estate al mare, in Abruzzo, aveva inteso delimitare il Suo spazio rispetto alle possibili distrazioni dell’ambiente, per rendere concreto il Suo programma. I figli e Tata a quel Suo programma credevano, anzi Loro erano nello stesso Suo programma, perché quello studio diventava la vita di tutti. Non c’era soluzione di intenzioni tra Lui e Tata e – secondo una diversa ma compresente dimensione – tra Lui e i Suoi Anna, Paola, Francesca, Giovanni e Lisa. Tra Lui e il Suo Abruzzo. Tutti sapevano dove il papà era arrivato, quali questioni stesse affrontando, dove ci fossero dei problemi di contenuto o di metodo ancora da superare.
Già, di metodo. Perché questa è stata sempre la Sua grande tensione e la Sua attenzione profonda. Che ci fosse correttezza e coerenza nei passaggi logici che portavano dalle ipotesi, alla loro verifica, fino al risultato finale. Questa idea lo pervadeva in modo continuativo, accomunando i comportamenti della vita di tutti i giorni, le indagini scientifiche, i pareri professionali, il funzionamento delle istituzioni dove è passato anche esternamente all’Università (Capitalgest per oltre 25 anni, la Cattolica Assicurazioni e la sua Fondazione, il Centro per il volontariato), i comportamenti da attuare nella società civile.
Che discutessimo del condimento di un risotto o di nuove frontiere dell’economia aziendale, delle ultime norme introdotte dal Governo o delle impostazioni di economics oltre oceano, il Professore voleva capire fino in fondo. Non gli piaceva utilizzare i concetti e le cose senza “intellegere” la ratio e il funzionamento. Dell’iPad avrebbe voluto prima il manuale, per centellinarlo. Poi l’avrebbe usato. Insistentemente gli dicevo che doveva anche e solo “provare” e “sbagliare”.
L’intuizione non supportata da una rigorosa spiegazione che “dispiegasse il vero”, quand’anche si trattasse di cosa accettata dai più, lo lasciava insoddisfatto e l’imprecisione delle motivazioni, delle dimostrazioni e delle prove diventava per Lui segno di insofferenza profonda. La vaghezza non solo collocava ogni cosa nell’aconsecutio doveva essere tracciabile, inoppugnabile, e – dopo una rigorosa elaborazione – la soluzione di immediata semplicità. Così semplice che chi la ascoltava non poteva non dire: “beh, come non avevamo potuto pensarci prima?”. Questa doveva essere la forza della scienza. E della vita.
In questo modo il Professore conquistava le idee e le faceva proprie con tanta intensità che resistevano a qualsiasi tentativo di contrastarle. Quanto a Lui, poi l’entusiasmo con cui riusciva a farle penetrare era proporzionale alla fatica di esserci arrivato. Erano cosa Sua. E lo erano tanto negli ambienti scientifici, quanto in ogni angolo della società. Per questo la Sua presenza quale relatore, o anche quale semplice conversatore, riempiva la stanza di Lui. Per questo, anche fuori di qui, era “il Professore”. Conosco molti ambienti (e alcune persone che vedo qui in sala se ne ricorderanno bene) che – dopo i “mitici” convegni di Ambrosetti all’inizio di settembre, nei quali catturava fresche idee sul funzionamento del mondo e le faceva proprie – lo invitavano a cena per sentirsele raccontare. Quelle idee si legavano a Lui. Ed era, il Suo, racconto, teatro, spiegazione, dimostrazione, previsione, tutto.
Così è stato nel Suo ultimo lavoro, predisposto per la giornata insieme ad Enrico Cavalieri al Foro Italico “La concezione di azienda come fondamento di una teoria generale”, parte di un progetto più ampio e silentemente perseguito, con il quale si proponeva di dimostrare l’utilità scientifica della concezione aziendale italiana, in modo da spingere i giovani studiosi a non dimenticarla e a fare ogni sforzo per rivendicarne l’impiego anche nei contesti internazionali che non l’hanno conosciuta o utilizzata.
E così è stato pure nel primo ambito di studio riguardo alle cooperative, il libro che gli valse la cattedra, se è vero che nello stesso aveva guadagnato l’idea della natura d’impresa di queste istituzioni [passando attraverso il riconoscimento di un diverso processo di distribuzione del reddito, comunque presente] dando vigore a un’idea che l’economia politica (il Pantaleoni) sentiva allora di enunciare ma non di dimostrare in modo “scientifico”. Le cooperative furono il Suo primo amore, e – per una curiosa nemesi storica – l’oggetto della Sua ultima relazione pubblica, ad un Convegno alla Scuola Agro
Dal 2004 era desideroso di portare un contributo in quella direzione, da quando cioè al percepire del mutare dei tempi nelle nostre discipline e all’evidenza di uno spostamento verso le concezioni internazionali, era animato non da un tentativo di conservazione, ma da un rispetto verso le diverse concezioni. Per questo ad Oxford proprio nel 2004 aveva cercato lungamente un confronto con Paolo Quattrone, ma non si erano capiti abbastanza. Serviva tempo, pensiero, elaborazione. “Se avessi trent’anni di meno starei due anni all’estero per capire”, mi diceva.
Così, negli ultimi anni il Professore non rinunciava a voler risolvere quell’enigma che lo aveva affascinato soprattutto nel tempo in cui, per conto di Sidrea, aveva presieduto il “gruppo distudio sul metodo” nell’economia aziendale: come rilanciare, anzi lanciare, l’idea di azienda in un contesto – quello internazionale – che non l’aveva conosciuta. Perché quell’idea era per Lui utile per capire, per investigare, per spiegare il funzionamento di queste straordinarie istituzioni.
Ne era così preso che la sera prima di andare a farsi operare mi aveva chiesto un consiglio su quali libri gli potessero essere utili in ospedale per andare avanti a studiare (nessuno, Professore, al massimo ci sta il giornale dopo l’operazione: le farà molto male, mi creda ): proprio qualche giorno prima gli avevo raccontato che stavo cercando di dare una diversa chiave interpretativa all’isolamento dall’estero che ha contrassegnato l’Accademia italiana per tanti anni (un paper mio, di Andrea e di Riccardo Stacchezzini) e ci eravamo riproposti dopo l’intervento di discuterne insieme. Vedevo in Lui una certa curiosità, come sempre giustamente guardinga: “me la dovrai spiegare bene”, mi aveva detto. Ma voleva dirmi e non l’ha fatto solo per riguardo: “se non è una tesi forte, te la smonto”. Dovevamo trovarci. Dovevamo.
Certo, il Suo pretendere era animato da un inarrestabile fiducia sul possibile risultato di ogni soluzione in cui ci fosse l’impegno dell’uomo. Era quello che trasmetteva con il Suo incedere sicuro e a tutti attento, con il Suo sguardo penetrante, con le Sue lezioni, che erano fatte per gente intelligente. Già, perché in cattedra o a tavola, non gli bastava raccontare, voleva dimostrare. E così non riusciva a rinunciare mai al fatto che gli studenti solo studiassero; voleva che possedessero il sapere, lo facessero loro, lo capissero fino in fondo: per questo era sempre in ritardo nello svolgimento del programma che si dava. Perché il fascino della dimostrazione lo fermava e Lui preferiva riflettere, spiegare, ritornarci sopra, non andare avanti.
Degli studenti ha avuto un rispetto assoluto. Agli esami li costringeva a ragionare e, quando ancora si facevano gli orali, gli orali con Lui erano un match che attraeva un folto pubblico. Era un match duro ma leale, perché le domande presupponevano il possesso di strumenti che erano stati dati nelle lezioni. C’era una logica per fare bene con Lui: accorgersi – di fronte alle domande più complesse – che si avevano certamente quegli strumenti e che bisognava utilizzarli per rispondere. Ragionando, non ripetendo. Era capitato anche a me, quando, nel luglio 1981, mi pose la prima domanda dell’esame e l’aula che assisteva all’orale (proprio questa) alla domanda scoppiò in un lungo “oooh”, per dire: caspita, boh ( ) e adesso? Allora pensai: “Se mi ha fatto questa domanda, con quello che mi ha insegnato devo poter rispondere” e in qualche modo me la cavai.
Il rispetto per gli studenti era parte di un più grande senso di attenzione a tutte le persone, che rifletteva valori trascendenti, antichi e radicatissimi in Lui, ma di cui all’esterno non faceva menzione, con un senso di laicità intesa non come negazione di qualcosa ma come attenzione a ogni forma di manifestazione della natura umana. Lontano da proclami, da prediche, e tantomeno dall’erogare massime o regole di vita, quei valori li testimoniava autenticamente in prima persona con il proprio comportamento quotidiano e non permetteva a se stesso – e così è anche la Sua famiglia – se non di portare agli altri una parola di speranza, di positività, di incoraggiamento: mai di fatica e di sofferenza. Quelle, se e quando fossero sopravvenute intimamente, non erano cose che si potessero condividere.
Questo senso di rispetto lo portava a non esprimere esternamente nessun giudizio su alcuno, ma a scovare la bellezza anche dove essa sembrava nascondersi.
E, di più, a condividerla con gioia con chi gli stava più a cuore, laddove avesse l’impressione che questa bellezza si manifestasse con maggiore abbondanza e magari fosse espressione di diversità da Lui. Così è stato – per esempio – per i Suoi amici professori che oggi sono qui con noi: di Vittorio Coda ammirava la capacità di penetrare le istituzioni e le relazioni che si stabiliscono fra e dentro di esse, con una profondità di riflessione che non ha lasciato indenne nessun campo del sapere aziendale. Gli piaceva tanto leggerlo. Di Giorgio Brunetti lo sorprendeva l’abilità a tratteggiare come un pittore, che con destrezza giocherella con la matita e con i colori, le scene nelle quali le aziende e le loro persone operano e le loro motivazioni e ragioni di fondo, rendendole soprattutto portatrici di insegnamento per la vita di tutti. Gli piaceva tanto ascoltarlo. Di Flavio Dezzani lo affascinavano le intuizioni di cui è capace e il modo immediato con cui perviene alla soluzione dei problemi con efficace sintesi espositiva, tutte qualità che andava ricercando, Lui che era invece abituato a percorsi più lunghi e articolati. Gli piaceva tanto scovare le ragioni di quelle intuizioni: poi si compiaceva anche del fatto che, con diversi percorsi, si potesse arrivare allo stesso risultato.
L’individuare questa bellezza, nei colleghi, negli amici, nei professionisti, nelle persone che animano la società civile, era la Sua quotidianità, era il Suo essere uomo e professore. Era intriso totalmente di questo, con una tale naturalezza che era capace di un contagio inarrestabile: quando arrivava, riempiva i luoghi, gli spazi, le cose, le persone di quell’entusiasmo che noi tuttora abbiamo nel cuore. Riempiva le istituzioni della Sua idealità non vagheggiata, consapevole che fare il bene delle persone non richiede solo un cuore grande, ma un lavoro continuativo che si paga di persona. Senza nessuna ricerca di gloria, di riconoscimenti, di privilegi. Né tantomeno mai e poi mai di potere. Non aveva mai inteso rivestire cariche accademiche. Non ce ne era bisogno, perché il Suo stare nell’università era di per sé un servizio, perché ogni Suo momento lo è stato con naturale semplicità, da soldato (e quale soldato).
Questo è solo piccola parte di quanto ci ha trasmesso: a chi gli ha vissuto vicino per 34 anni, come me; a chi è stato con Lui alcuni anni di meno, ma non con minore intensità, come gli amici Silvano ed Andrea. A chi lo ha seguito per minor tempo come Ugo Lassini, ma anch’egli in modo ravvicinato. A chi ne ha avuto occasioni amicali o professionali come Giuseppe Manni e Giuseppe Mercanti. A chi lo ha semplicemente incontrato, o ne è stato conoscente, o studente, come Voi qui oggi. Mi ha scritto l’altro giorno una persona un tempo molto importante di questa università: “Siete stati fortunati ad avere avuto un tale maestro, che ha sviluppato la sapienza umana al servizio dei giovani per una società giusta e solidale. Per Lui questa non era un’utopia … ”.
Esattamente: credere che non fosse utopia richiedeva però impegno e lavoro, forza e coraggio, quelle che Antonio Tessitore brandiva con continuità e con il supporto in ogni momento della famiglia. Quelle che lo portavano a pensare che anche le cose piccole fossero meritevoli di attenzioni. Quelle che gli facevano condividere la bellezza del creato senza mai nominarne il nome dell’Autore, in cui peraltro si riconosceva profondamente, al tempo stesso così rispettoso di chi guardava al creato con occhi che utilizzavano altre lenti.
A Roma, nel pomeriggio del 10 settembre dell’Anno Santo 2000, giorno del Giubileo dei Professori universitari, sul tetto di San Pietro, mentre cercava la statua presso la quale aveva spento, tanti anni prima, la Sua ultima sigaretta (insieme alla figlia Anna) perché aveva deciso di non fumare più, mi aveva “affidato” moralmente – in pectore, allora – la responsabilità della Sua cattedra qui. E ci aveva tenuto tanto a dirmelo proprio lì, su quel tetto. La raccolgo volentieri, questa responsabilità, insieme a Silvano ed Andrea e a tutto il nostro gruppo, consapevoli che è un dono prezioso, che tutti quanti ci dobbiamo ancora meritare.
Grazie, Professore.
Alessandro Lai
10.03.2015