Identificato un nuovo marcatore del rischio cardiovascolare. Si tratta del complesso fattore VII attivato-antitrombina FVIIa-AT che potrebbe permettere d’identificare i pazienti cardiopatici con peggior prognosi e a maggior rischio di complicanze cliniche severe. La ricerca, condotta da un gruppo di scienziati dell’università di Verona interamente nell’ambito del progetto Verona Heart Study diretto da Oliviero Olivieri, è stata coordinata da Nicola Martinelli, ricercatore del dipartimento di Medicina dell’università di Verona, e realizzata in collaborazione con Francesco Bernardi, docente del dipartimento di Scienze della vita e Biotecnologie dell’università di Ferrara. I risultati dello studio sono stati pubblicati sul "Journal of Thrombosis and Haemostasis".
“Il complesso FVIIa, AT – spiega Martinelli – è un indicatore della diatesi trombofilica del sangue, ovvero della tendenza del sangue a coagulare più facilmente, anche in maniera inappropriata e patologica fino a formare, all'interno dei vasi arteriosi, dei tappi, i trombi appunto, che ostacolano il flusso del sangue sino all'ostruzione completa e possono provocare complicanze cliniche drammatiche quali l'infarto miocardico acuto nel caso siano interessate le arterie coronarie che vascolarizzano il cuore. Questo complesso che si può dosare nel sangue, per ora solo in modo sperimentale, è stato da noi identificato per la prima volta come un potenziale marcatore prognostico della cardiopatia ischemica”.
“Nel Verona Heart Study – prosegue Olivieri – i pazienti coronaropatici con elevati livelli di FVIIa-AT presentavano un rischio pressoché raddoppiato di mortalità totale e cardiovascolare, in modo indipendente rispetto a tutti i tradizionali fattori di rischio per l'aterosclerosi. Da un punto di vista prognostico avere alti livelli di FVIIa-AT era equivalente ad avere avuto un precedente infarto miocardico”.
“Gli elevati livelli di FVIIa-AT – aggiunge Domenico Girelli, docente di Medicina interna e tra gli scienziati di riferimento del Verona Heart Study – si confermavano essere associati ad un’aumentata coagulabilità del sangue”. “I nostri risultati – concludono i ricercatori veronesi – dovranno essere peraltro comprovati da ulteriori analisi e molto lavoro sarà ancora necessario prima che questi risultati possano trovare un’eventuale applicazione nella pratica clinica quotidiana. La ricerca prosegue e siamo fiduciosi che questa avrà sempre supporto e stimolo all’interno dell’ateneo scaligero e del territorio veronese”.
08.04.2016