Anche quest’anno Fondazione Arisla partecipa alla “Giornata mondiale delle malattie rare”, che si tiene l’ultimo giorno di febbraio. Una ricorrrenza speciale per ribadire in tutto il mondo l’importanza di impegnarsi per fornire risposte a chi affronta la sfida di vivere con una malattia rara. Una sfida che Arisla conosce bene e che la spinge a operare dal 2009 per sostenere l’eccellenza della ricerca scientifica italiana sulla Sla, con l’obiettivo di identificare al più presto soluzioni terapeutiche efficaci. Oggi nel nostro Paese sono 6000 le persone che vivono con la Sla, malattia neurodegenerativa che porta alla paralisi progressiva di tutta la muscolatura volontaria, andando a colpire anche la muscolatura che consente di articolare la parola, di deglutire e respirare. Arisla ha investito oltre 10,6 milioni di euro in attività di ricerca, supportando in questi anni 62 progetti. Oltre 250 sono i ricercatori che hanno collaborato per la realizzazione degli studi: 90 ricercatori hannomeno di 40 anni e 136 sono donne. Tra loro Raffaella Mariotti, ricercatrice dell'università di Verona e coordinatrice scientifico del progetto "Exoals". Si tratta di una ricerca sull'utilizzo degli esosomi derivanti da cellule staminali come nuovo approccio terapeutico per trattare la sclerosi laterale amiotrofica.
In occasione del 28 febbraio, Arisla ha deciso di dare voce alle storie di alcuni dei ricercatori che studiano la Sla nel nostro Paese, in particolare ai vincitori dell’ultimo “Bando di concorso per progetti di ricerca 2016”: Mariotti, Fabrizio d’Adda di Fagagna dell’Ifom – The Firc Institute of Molecular Oncology di Milano, Antonia Ratti dell’Irccs Istituto Auxologico Italiano di Milano, Tania Zaglia del Venetian Institute of Molecular Medicine di Padova, Marta Fumagalli dell’Università degli Studi di Milano e Alessandro Rosa dell’Università “La Sapienza” di Roma.
“Sono nata a Genova, ho 48 anni, sono sposata e ho due figli di 12 e 5 anni – afferma Mariotti –. Tra le esperienze formative e professionali più interessanti, quella negli Stati Uniti, al National Institutes of Health, Nih, e al Karolinska Istituite di Stoccolma. In Italia ho avuto l’opportunità di lavorare al Besta di Milano e poi all’Università di Verona, dove lavoro tutt’oggi. Pensando al perché sono diventata ricercatrice, credo che mi abbia molto influenzato avere un papà medico: ricordo le conversazioni con lui, anche banalmente su come curare una ferita, o le letture delle riviste scientifiche che circolavano in casa. Tra gli incontri che mi hanno particolarmente segnata, c’è quello con la professoressa Marina Bentivoglio dell’Università di Verona: anche lei mi ha trasmesso la passione per questo lavoro. Per me la passione per la ricerca è fondamentale, è il motore che mi spinge tutti i giorni. Perché sono più gli insuccessi che i successi che si accumulano quando fai gli esperimenti e se non hai la passione che ti sostiene è più difficile andare avanti. Perché studiare la Sla? Me ne occupo dal ’96 perché mi sono appassionata e perché vedo quanta sofferenza c’è da parte della persona ammalata, di cui mi colpisce il desiderio di vivere, nonostante ci sia la certezza che al momento non esista una via di uscita. Ogni tanto mi chiedo cosa farei io se capitasse a me. Poi penso ad un’associazione locale di un gruppo di pazienti che è testimonianza di come una forte disperazione possa diventare una fonte di speranza incredibile. Io sento su di me, quotidianamente, la responsabilità verso queste persone. Penso che il nostro lavoro sia una piccola missione, una sfida che non finisce, ma anzi inizia quando si vince un grant. Tra gli hobby che coltivo c’è la preparazione delle recite scolastiche di mia figlia. Quest’anno metteremo in scena Frozen e io interpreterò la principessa Anna. Il mio sogno nel cassetto è di dare un futuro, in termini accademici e lavorativi, alle persone che lavorano con me, dandomi sostegno e forza per proseguire”.
I ricercatori sono papà e mamme, accomunati da una profonda passione e dedizione per la scienza. Tra gli incontri che hanno segnato la loro vitaotra i modelli a cui ispirarsi, emergono le figure di Rita Levi Montalcini, esempio di come una vita possa essere completamente dedicata alla ricerca, e di Shinya Yamanaka, vincitore del premio Nobel nel 2012 per gli studi sulle cellule staminali, per essere andato oltre il muro di scetticismo della comunità scientifica. L’incontro con la Sla per molti è avvenuto per caso, studiando altri ambiti di ricerca,incuriositi da un puzzle complesso, con l’obiettivo di contribuire adaggiungere anche un piccolo “tassello alla conoscenza e sviluppare terapie che diano benefici concreti alle persone ammalate”. “Per questa giornata speciale nella quale si parla soprattutto di ricerca, abbiamo voluto valorizzare chi la ricerca la fa tutti i giorni con professionalità e dedizione, perché i nostri ricercatori – sottolinea Alberto Fontana, presidente di Arisla – sono per noi testimoni di speranza. La speranza per loro di realizzare un sogno nel cassetto: ottenere risultati che possano migliorare la vita delle persone con Sla. Per noi di Arisla questo significa avere speranza in un futuro senza Sla”.
27.02.17