Lungo i secoli, la lingua italiana si è fatta strada fino a diventare una delle lingue più studiate e affascinanti al mondo. Eppure le lacune non mancano, soprattutto tra i giovani cittadini. A ribadirlo, gli esperti che mercoledì 25 ottobre hanno costituito la tavola rotonda “Italiano per tutti. Educazione linguistica, educazione letteraria e cittadinanza attiva”, promossa dal collegio didattico di Lettere e dal dipartimento di Culture e civiltà, in collaborazione con l’Ufficio scolastico provinciale di Verona.
Riflettere sul ruolo della lingua e della letteratura italiana, nonché sull’importanza che l’educazione linguistica e letteraria ha nello sviluppo del pensiero critico e di una cittadinanza attiva e consapevole. Questi alcuni dei temi che sono stati dibattuti e che, soprattutto, hanno cercato di trovare risposta.
Dopo i saluti introduttivi del direttore del dipartimento di Culture e civiltà Gian Paolo Romagnani, Lucia Olini, insegnante di italiano del liceo Messedaglia, e Alessandra Zangrandi, docente d’ateneo, hanno illustrato non solo gli errori che i giovani, dalla scuola all’università, commettono più frequentemente, ma anche i modelli letterari fondamentali per la maturazione linguistica di ogni studente. Si è discussa anche la proposta abolizione della prova d’esame di maturità o, ancora, l’alternanza scuola-lavoro. “Il problema della lingua ha sempre accompagnato la storia della nostra cultura”, sottolinea Lucia Olini.
Non tarda ad arrivare, poi, la critica ai metodi di valutazione del corpo docenti, colpevole talvolta di non essere all’altezza del ruolo, talvolta di restare ancorato ai dogmi sfornati dall’accademia. Concorde Stefano Quaglia, dirigente dell’Ufficio scolastico provinciale di Verona. Tentare un approccio che sappia insegnare ad andare oltre i commenti critici che i manuali ci dettano: questa una delle nuove frontiere a cui dovremmo prepararci tutti. In fin dei conti, cosa vuole insegnare la letteratura, se non saper guardare oltre la siepe? Anche parlare di linguaggio e non di lingua, dirsi appartenente a tante identità e non a tante lingue, può essere definito come un guardare oltre? Anilda Ibrahimi, scrittrice di origine albanese naturalizzata italiana, dimostra che è possibile parlando di sé. “Io scrivo in lingua italiana. Nel 1997 mi sono trasferita qui e in dieci anni sono riuscita a imparare la lingua”, racconta la scrittrice dall’italiano limpido, scorrevole, sapiente, così come i suoi romanzi, dallo stile pulito e scarno. “Come diceva Muller, la patria dello scrittore è il linguaggio. Non mi sento né albanese, né italiana. A chi scrive di me, dico di definirmi italofona”, conclude.
Le responsabilità che ogni individuo ha nei confronti della lingua non mancano. Assente è, piuttosto, la volontà di farsene padroni, comprendere, cioè, il ruolo che spetta a ognuno, da chi insegna a chi impara, da chi parla a chi ascolta, da chi scrive a chi legge. A tal proposito, Marzio Breda, veterano giornalista del Corriere della sera, ha parlato di “una deriva linguistica sconcertante”, mostrando come i giovani di oggi siano vittime di un overload, cioè di una sovra-informazione “che porta a smarrimento, vertigine, rifiuto”. Una società di tuttologi, dunque. Ma specialisti in niente. Un mondo “dove si è persa anche un’altra cosa: la scrittura non è più strumento di riflessione. Lo studente di un tempo si informava soprattutto sui giornali, cosa che oggi non fa, perché si sazia con quella informazione istantanea che tuttavia è superficiale” aggiunge Breda. L’avvento della comunicazione di massa non ha fatto che renderci un popolo di lettori confusi e di scrittori a metà che, tuttavia, hanno la necessità di risorgere.