“Ti amo da morire”, espressione metaforica di un affetto incondizionato che, tuttavia, negli ultimi anni si realizza nella sua traduzione più letterale e capovolta, anche nei mezzi di comunicazione. “Ieri ti ho riempita di botte e oggi ti ho uccisa, perché ti amavo troppo”, queste le parole che dalla bocca del responsabile passano, incoscienti, ai media e a tutti quei canali digitali che ogni giorno si fanno responsabili della formazione dell’opinione pubblica. È su questo tema che, in occasione della giornata contro la violenza sulle donne, Cristina Martini, ricercatrice nel campo della violenza di genere, ha voluto incentrare la conferenza, promossa dal Cug, il comitato unico di garanzia di ateneo, che si è tenuta mercoledì 29 novembre, al polo Zanotto.
Per l’urgenza che muove lotte e speranze contro un fenomeno sempre più diffuso e incontrollato, Cristina Martini ha voluto analizzare gli stereotipi e i pregiudizi che i mezzi di comunicazione costruiscono e veicolano, mentre spettatori e lettori li fruiscono, non sempre consapevoli del significato che portano e diffondono. Perché, come spiega la stessa Martini “Non agiamo su ciò che è reale, ma su ciò che pensiamo essere reale”. Attraverso immagini, filmati e spot pubblicitari, la ricercatrice ha permesso ai presenti di esplorare non solo i luoghi comuni, trappole sia per il mondo femminile che maschile, ma anche il modo in cui la pubblicità rappresenta la donna come un oggetto o come sessualmente disponibile; fino a passare per il linguaggio errato e fuorviante utilizzato in cronaca nera.
“C’è la diffusa tendenza di occultare la violenza e, soprattutto, di giustificare il colpevole attraverso stereotipi che si fingono cause di violenza o di omicidio. L’amore, la gelosia, la malattia mentale e talvolta il caldo, sono gli stereotipi più utilizzati”. Altro aspetto cruciale è che “mentre il colpevole viene giustificato, la vittima viene rivittimizzata con la distribuzione di colpa: la vittima è ritenuta corresponsabile di quello che le è successo. Esempio tipico: la minigonna che indossava è la sua colpa”, continua Martini. “Se la donna non va via di casa è perché vive di sensi di colpa, perché ha paura di perdere i figli e, delle volte, non ha informazioni sufficienti per uscire dalla violenza”. E infine quei “raptus d’amore”: i femmicidi non sono né raptus né amore; al contrario di ciò che raccontano i media, la morte di una donna e quella di un’altra ancora non sono effetto di un evento isolato, inaspettato, ma l’epilogo di una serie di soprusi a cui non si dà voce. “Questi uomini hanno deciso di essere violenti molto prima di scegliere di uccidere”, conclude Martini.
Un incontro, dunque, che con le sue analisi e i suoi rimproveri pretende un esame di coscienza dal quale i media di oggi non possono esimersi.