La situazione lavorativa dei giovani italiani è in continua evoluzione. Se, da un lato, negli ultimi anni il dibattito pubblico si è concentrato soprattutto sulle nuove forme contrattuali e di retribuzione, dall’altro le innovazioni tecnologiche stanno modificando profondamente le metodologie di selezione delle aziende e stanno favorendo la nascita di nuove professioni, ancora difficili da inquadrare e regolamentare. Si è parlato di questo durante l’incontro “Giovani, carini e disoccupati”, che si è svolto il 20 aprile, nell’aula magna del dipartimento di Scienze giuridiche.
L’appuntamento, inserito nell’ambito del ciclo di incontri “Cittadinanza consapevole”, è stato condotto dalla direttrice del dipartimento Donata Gottardi e da alcuni ricercatori di Diritto del lavoro di ateneo. “Questi incontri – ha spigato Marco Peruzzi, ricercatore del dipartimento e tra i relatori della conferenza – sono di tipo divulgativo e quindi abbiamo deciso di partire proprio raccontando delle storie, soffermandoci in modo particolare sull’attualità”.
Durante l’incontro si è parlato anche della cosiddetta “uberizzazione”, termine che deriva dall’azienda americana Uber, un fenomeno che racchiude business e lavori vecchi che, con le nuove tecnologie, hanno assunto risvolti nuovi, ancora difficili da regolare dal punto di vista normativo: è il caso, per esempio, dell’attività dei ciclo-fattorini dei servizi di ristorazione a domicilio, che si sono riuniti per la prima volta a Bologna qualche settimana fa. I “riders” hanno espresso la necessità di individuare al più presto una forma di contrattazione metropolitana in cui riconoscersi e che garantisca per tutti un’assicurazione, un salario minimo, l’indennità in caso di mal tempo, orari stabili e manutenzione gratuita per gli strumenti che utilizzano per svolgere la loro attività professionale.
Rimane spinoso e controverso, inoltre, il tema delle discriminazioni sul posto di lavoro e al momento del reclutamento. Dopo aver raccontato alcune storie significative (come quella di Sara, giovane milanese di religione mussulmana, che non è stata assunta perché si rifiutava di togliere il velo) i relatori si sono soffermati sul ruolo dei social network nel processo di selezione. “Tutti i dati che i ragazzi rilasciano spontaneamente in rete – hanno spiegato i ricercatori – possono essere utilizzati pro o contro di loro. Non parliamo di social dedicati in modo esplicito al recruiting, come per esempio Linkedin, ma di quelli utilizzati nel quotidiano come strumenti personali e di aggregazione: molto spesso vengono sfruttati dalle aziende per scegliere o eliminare candidati prima ancora del “colloquio esplorativo”, rendendo ancora più complessa l’individuazione di eventuali discriminazioni”.