Il migrante e il diritto di asilo nel tempo e nello spazio.
“Un gruppo di migranti si presenta alle porte della città: hanno attraversato il mare, sono di pelle scura, le loro vesti sono strane, esotiche, barbare. Sono tutte giovani donne – unico maschio è il padre, Danao, che le ha condotte per mare, nel pericoloso viaggio dalle sponde dell’Africa fino in Grecia”.
Non è la Grecia, ma l’Italia, non è il 463 AC, ma il 2018 DC, non si chiamerà Danao, la citta non sarà Argo, ma Trapani, ma il racconto di Eschilo non dimostra i suoi 2500 anni; le figure tragiche dei migranti, le loro richieste di asilo sono senza età.
Ieri come oggi si ripropone un dramma che non ha tempo né confini. E, ci verrebbe di aggiungere, che se il testo biblico inizia con un episodio di esilio, la cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre, migliaia di anni dopo altri episodi di esilio avrebbero segnato la vita dei fondatori delle grandi religioni monoteiste: la fuga della Sacra Famiglia dalla Palestina in Egitto per sfuggire alla persecuzione di Erode; e l’Égira, la fuga di Maometto a Medina.
Una visione diacronica.
Certo, il contesto in cui ci muoviamo oggi è talmente diverso da rendere ogni richiamo al lontano passato un esercizio che rimarrebbe meramente culturale, non fosse che il meccanismo di protezione dei migranti, il loro diritto d’asilo, i diversi status che ne derivano per essere pienamente compresi nella loro problematica presente richiederebbero una configurazione diacronica, che prenda in considerazione le strutture e gli elementi nella loro evoluzione nel tempo, nello spazio e nel diritto.
Dal piano storico ci si muove a quello giuridico, dal diritto nazionale a quello internazionale, dalla dimensione statale, infine, si giunge a quella dell’Unione europea.
La nozione di asilo.
Il diritto di asilo è un’antica nozione giuridica che affonda le sue radici nella tradizione occidentale, dove essa assunse col tempo, specie nel medioevo, una duplice valenza. Per asilo, spesso identificato con asilo politico, si intende quell’istituto giuridico in base al quale una persona perseguitata nel suo paese di origine può essere protetta da un’altra autorità sovrana,
– vuoi di un paese straniero
– vuoi in un luogo sottratto alla giurisdizione dello Stato persecutore.
Quest’ultimo era il caso dei santuari, nelle situazioni di protezione offerta dalla chiesa, o delle ambasciate.
Le due nozioni finivano a volte per coincidere, se è vero, come ricordano Livio e Plutarco, riferendosi a Roma, che fin dal suo insediamento venne istituito un luogo sacro, l’attuale – parrebbe – Piazza del Campidoglio, non a caso indicata col termine Asylum, dove accogliere i fuggitivi così posti sotto la protezione del dio Asilo.
Venendo ad epoche a noi più vicine, la prima volta in cui la comunità internazionale si è mobilitata per garantire una protezione particolare a determinati gruppi di migranti era il 1922, nel caso del c.d. “Passaporto Nansen”, rilasciato dalla Società delle Nazioni, per consentire ai rifugiati russi, in fuga dal neonato regime sovietico, di viaggiare tra i 52 paesi firmatari del relativo accordo istitutivo.
Successivamente, nel 1924, con altro accordo fu riconosciuta la qualifica di “rifugiati” a persone di origine armena in fuga dalla Turchia, in seguito allo scioglimento dell’Impero ottomano.
Accordi successivi disciplinarono lo status dei rifugiati assiri, assiro-caldei e turchi.
L’elemento comune alle definizioni contenute in questi strumenti era la dimensione territoriale.
Il carattere individuale della protezione venne poi affermato dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, firmata a Parigi nel 1948 e consacrato nella Convenzione di Ginevra del 1951 e dal relativo Protocollo del 1967.
Altri atti internazionali, specie a base regionale, concorrono a completare il quadro normativo internazionale, tra cui in particolare la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma nel 1950, vincolante, tra gli altri, anche tutti gli Stati membri dell’Unione europea.
Riconosciuto così il diritto di beneficiare di strumenti di tutela apprestati a favore di coloro ai quali sia impedito nel proprio paese di origine l’effettivo esercizio dei diritti e delle libertà democratiche, è possibile assistere alla costruzione di un graduale sistema di protezione incentrato sul diritto di asilo, riconosciuto dall’art. 10 della nostra Costituzione, e il diritto di rifugio, sancito nella Convenzione di Ginevra del 1951.
Il diritto di asilo configura la categoria generale entro la quale trovano collocazione tutte le forme di protezione, vale a dire: lo status di rifugiato, la protezione sussidiaria e, fino a poco tempo fa la protezione umanitaria, sostituita dal c.d. Decreto sicurezza, di recente approvato[1], con il nuovo istituto dei “permessi speciali”, il cui rilascio è consentito in sei specifiche fattispecie.
Il diritto d’asilo assume così la forma dell’acqua, ovvero, prendendo a prestito una nota metafora, “piglia la forma le viene data”. In tale contesto, dai contorni sempre più sfumati e sfuggenti, il diritto della persona alla protezione internazionale, sancito all’inizio di questo mese dalla Corte di Cassazione a sezioni unite[2] come diritto umano fondamentale, non è immune dal rischio di essere sacrificato sull’altare delle concrete esigenze di ordine pubblico e pubblica sicurezza.
Il sistema europeo di protezione del migrante.
Il necessario rispetto delle convenzioni internazionali da parte dei relativi paesi contraenti non faceva tuttavia venir meno le divergenze esistenti a livello nazionale nei sistemi di asilo.
Di qui un’articolata e complessa interazione tra modelli giuridici e sociali diversi e connotati, a livello nazionale, da un grado di eterogeneità che l’ordinamento internazionale non è riuscito e non riesce a ricondurre a sintesi e/o unità.
Il sistema europeo di protezione del migrante si è innestato sulle norme internazionali convenzionali hanno esplicato la loro importanza prima che all’Unione fossero attribuite competenze in materia.
La politica dell’Unione in tema di asilo[3] è uno dei segmenti costitutivi dello «Spazio di libertà, sicurezza e giustizia», vale a dire lo spazio dato dall’insieme dei territori degli Stati membri, nel quale la libertà di circolazione deve essere goduta in condizioni di sicurezza e giustizia uguali per tutti. Essa è stata configurata come una competenza concorrente con gli Stati, suscettibile di essere esercitata dall’Unione attraverso l’adozione di norme comuni nel rispetto delle prerogative nazionali.
La complessità dell’attuale assetto normativo europeo dipende proprio dal fatto che gli Stati non attribuiscono all’Unione in quanto tale tutte le competenze necessarie a porre in essere una politica di protezione internazionale e di asilo realmente adeguata. Ne consegue un’applicazione differenziata delle regole nei vari Paesi, che rimangono sovrani nel decidere a quali di esse vincolarsi, in un contesto a geometria variabile.
Il merito dell’Unione europea è stato comunque quello di aver cercato di mettere ordine in una materia dalle molteplici sfaccettature, sviluppando anche diverse forme di tutela di fattispecie, che non sempre venivano salvaguardate a livello nazionale o internazionale.
Nei limiti così definiti, il pilastro della politica di asilo è costituito a livello europeo dal sistema di Dublino, insieme all’Accordo di Schengen, al quale è strettamente connesso. Tale sistema è basato sul criterio del primo ingresso nell’Unione, con conseguente attribuzione di ogni responsabilità in capo a quegli Stati che, anche a causa della loro conformazione geografica, accolgono per primi il maggior numero di migranti. Il risultato, a tutti noto, è che alcuni paesi – quali Italia, Grecia, Malta e Spagna, seppur in misura diversa – si trovano a dover sopportare l’onere non solo di controllare le proprie frontiere esterne, che coincidono con quelle dell’Unione, ma anche quello di accogliere e esaminare le domande dei richiedenti protezione internazionale e di rimpatriare coloro che non hanno – o non hanno più – le condizioni per rimanere sul territorio nazionale.
Sono altresì a tutti note le vicende legate ai diversi flussi migratori succedutisi dal 2015 e alle diverse rotte seguite cui si sono accompagnate le reazioni difensive di alcuni Stati, pronti ad alzare veri e propri muri e reticolati, mentre diveniva sempre più consistente, dopo la chiusura della rotta balcanica, il flusso di migranti provenienti da varie regioni africane e pronti ad affrontare il mare aperto, spesso a rischio della propria vita, per approdare in Italia.
Le risposte dettate dall’emergenza.
Nello scenario di crisi, apparentemente inarrestabile, del 2015 si compie lo sforzo di declinare in maniera innovativa i principi inseriti nei Trattati dell’Unione europea di (equa ripartizione) delle responsabilità e soprattutto di solidarietà, in termini diversi dalla mera assistenza tecnica e finanziaria.
In deroga temporanea e obbligatoria ai criteri di competenza del reg. Dublino III (fondati appunto sul criterio del paese di primo ingresso) vengono così adottate le decisioni sulla ricollocazione delle persone in evidente bisogno di protezione internazionale[4].
L’aspetto più innovativo di tali decisioni consiste nell’introduzione di quote obbligatorie sulla base delle quali distribuire i richiedenti protezione internazionale tra gli Stati membri, ad eccezione di Regno Unito, Irlanda e Danimarca.
Pur meritevole e carico di aspettative, il nuovo meccanismo di definizione di quote obbligatorie si è rivelato tuttavia nei fatti controproducente, per gli effetti addirittura peggiorativi sul piano pratico, proprio per quegli Stati, in primis il nostro, che più avevano riposto in esso speranze e che, come Paesi di primo ingresso, venivano gravati anche dell’obbligo di identificazione dei migranti irregolari e dei richiedenti asilo, già vigente ma largamente disatteso, tanto da consentire, nella generale connivenza, che il nostro Paese divenisse spesso un luogo di mero transito per chi volesse attraversarlo per raggiungere un’altra meta europea.
Il meccanismo delle quote obbligatorie rendeva non più praticabile questo escamotage, con conseguenze certamente impreviste nel nostro Paese, nel frattempo obbligato a dotarsi di strutture di accoglienza e prima accoglienza secondo l’approccio “hot spot”, cioè centri chiusi per assicurare l’efficace realizzazione delle procedure di identificazione, registrazione e rilevamento delle impronte digitali.
A parte le perplessità sull’effettivo rispetto dei diritti garantiti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, è un dato di fatto che il sistema di ricollocamento abbia faticato a funzionare, tanto che, scaduti i due anni dalla sua entrata in vigore, è stato abbandonato dalla Commissione, a favore di nuove soluzioni ancora però tutte da definire.
Per una soluzione comune.
La realtà ha mostrato come un’(ir)razionale, a volte, gestione dei – sovente – incontrollati flussi migratori non può essere rimessa in via esclusiva alle scelte decisionali autonome e autoreferenziali di ciascun Paese.
Il processo di progressiva globalizzazione dei valori e delle libertà fondamentali dell’individuo postula un superamento delle prospettive nazionali, che tuttavia non può cancellare le diversità culturali, sociali ed anche economiche che identificano le comunità nazionali e che con la loro diversità arricchiscono l’Europa.
Diviene così indifferibile giungere ad una posizione comune, nel quadro di una condivisione del percorso normativo, che sappia coniugare il riavvio dell’iniziativa europea con il rispetto delle identità nazionale, la responsabilità attribuita e riconosciuta in capo ai singoli Stati con l’impegno solidale e comune a far sì che la crescita esponenziale dei flussi migratori non ricada esclusivamente o principalmente su alcuni Paesi di frontiera.
Solo così l’Unione europea potrà divenire, come da tanti auspicato, la vera casa comune di tutti coloro che si riconoscono nei suoi valori e principi, in primis dei cittadini europei, ma anche di coloro che, nel rispetto delle regole e in ossequio a tali valori e principi, cercano in essa rifugio.
Per affrontare in modo efficace i problemi evidenziati servirebbe una politica che, oltre a favorire la migrazione legale, preveda in parallelo idonee garanzie di sicurezza per i cittadini europei, ma che intensifichi anche la collaborazione con i Paesi di origine e transito dei flussi, che aiuti dunque adeguatamente lo sviluppo economico dei paesi da cui partono i migranti e che intervenga per ridurre ed eliminare i conflitti e per garantire la sicurezza di tutti gli operatori del settore.
Ma anche una “politica” che individui le capacità di assorbimento ed integrazione dei migranti sul territorio europeo, attraverso una corretta inclusione ed integrazione.
Il primo passo potrebbe consistere nel basare la revisione del regolamento Dublino sulla considerazione che la politica migratoria e di asilo non è (o almeno non lo è più) un fenomeno emergenziale, ma strutturale.
In questo modo, tramite l’introduzione di meccanismi legali e ordinati di ingresso e l’impegno a migliorare le condizioni dei Paesi da cui nascono i flussi migratori, si potrebbe riconquistare la fiducia dei cittadini nelle Istituzioni europee.
Il mancato accordo sulle proposte.
Quanto accaduto nel corso dell’anno non induce tuttavia ad ottimismo. Le conclusioni del Consiglio europeo di Salisburgo, del 17-18 ottobre scorso, confermano la situazione di stallo determinatasi all’indomani del Consiglio europeo di Bruxelles, del 28 e 29 giugno, sulle migrazioni, a esito del quale, di fronte alla richiesta italiana di maggiore solidarietà, accompagnata dalla presentazione di un piano in dieci punti, la c.d. European Multilevel Strategy for Migration, sono stati assunti solo impegni generici, in gran parte da attuarsi su base volontaria dai singoli paesi membri.
Da parte sua, il Presidente della Commissione Juncker, nel discorso sullo stato dell’Unione, dello scorso 12 settembre, si è limitato a richiamare l’esigenza di ricercare “il giusto equilibrio tra la responsabilità che ciascuno” Stato “deve assumere per il proprio territorio e la necessaria solidarietà reciproca”, annunciando, sul piano operativo, alcune proposte relative ad un rafforzamento della guardia costiera e di frontiera europea, allo sviluppo dell’Agenzia europea per l’asilo, ad una accelerazione del rimpatrio dei migranti irregolari, ad una apertura di vie di accesso legali all’Unione europea.
Diviene così sempre più evidente che ogni soluzione è rinviata all’esito delle ormai prossime elezioni europee, che si terranno nel maggio 2019. Una nuova Commissione, espressione di una maggioranza nel Parlamento europeo ancora tutta da scoprire, dovrà affrontare un problema ormai ben noto in tutte le sue declinazioni, ma non per questo meno urgente.
Gli screzi di confine fra il nostro Paese e la Francia, nonché tra Croazia e Slovenia, le levate di scudi della vicina Austria, i vivaci scambi di vedute con la Germania sulle modalità di riallocazione dei migranti e il recente accordo tra Germania e Grecia non devono far riaffiorare quei germi di disgregazione e di declino, di reciproca diffidenza che hanno segnato in passato la storia dell’Europa.
La speranza è che l’inverno che sta per iniziare non sia troppo lungo e che la primavera segni il risveglio delle ragioni dell’Europa. L’accoglienza si nutre del dialogo e consente, in un reciproco arricchimento, di affrontare al meglio le nuove sfide. Ma per far questo l’Italia, che già tanto e bene ha fatto, non può e non deve rimanere sola. Quanto accaduto è un fenomeno epocale di fronte al quale sono possibili due scelte: l’una, impossibile, è di far finta che non esista il fenomeno; l’altra, in effetti l’unica che rimane, è di affrontarlo “con senso di realtà e di responsabilità”[5], nella consapevolezza che per governare il fenomeno migratorio occorre “una gestione comune, perché soltanto l’Unione può gestire in maniera ordinata ed efficace la riammissione nei Paesi di origine di coloro che non hanno titolo per essere accolti; soltanto l’Unione può decidere l’accoglienza in tutta l’Unione di coloro che hanno diritto all’asilo; soltanto l’Unione può gestire accordi con i Paesi di origine e transito, sotto ogni profilo del fenomeno” [6].
In conclusione, la scelta irrinunciabile compiuta sessanta anni or sono di sottoscrivere i Trattati di Roma impone oggi come allora, per i sei Paesi fondatori, ma anche per i ventidue che si sono nel tempo aggiunti, che il conseguimento del bene comune avvenga attraverso scelte condivise e responsabili nel rispetto dei diritti non solo economici, ma anche e soprattutto sociali e della persona, sanciti nei Trattati europei, nella nostra Costituzione e nelle fonti internazionali che essa richiama.
Il prevedibile fallimento del Global Compact sulle Migrazioni nella conferenza di Marrakech del prossimo dicembre segna il tramonto – forse definitivo – della capacita delle Nazioni Unite di dare una risposta al fenomeno migratorio a livello globale, lasciando come unica strada percorribile quella a livello europeo.
L’auspicio è che si giunga finalmente a riscrivere le regole di una politica migratoria autenticamente ispirata ai valori costitutivi dell’Europa, quale casa comune delle varie identità nazionali, che metta in atto il principio di solidarietà e di una equa ripartizione delle responsabilità tra tutti gli Stati membri, e che, nel rispetto dei diritti fondamentali della persona, sappia rispondere alle insicurezze identitarie, oltre che materiali, dei cittadini.
Maria Caterina Baruffi, Professore ordinario di Diritto internazionale
[1] Il 28.11.2018 il decreto sicurezza è stato approvato definitivamente dalle Camere.
[2] Corte di Cassazione, sezioni unite, 13.9 – 9.11.2018, n. 20755.
[3] Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, titolo V, capo 2, artt. 77-80.
[4] Decisioni del Consiglio 2015/1523, del 14 settembre 201; e 2015/1601, del 22 settembre 2015 (modificata dalla decisione del Consiglio 2016/1754, del 29 settembre 2016), entrambe relative alle misure temporanee nel settore della protezione internazionale a beneficio dell’Italia e della Grecia.
[5] Presidente Mattarella, discorso 20/6/2016 Roma.
[6] Presidente Mattarella, discorso 15/9/2017, La Valletta.