Niente contatti umani se non strettamente legati alla cerchia famigliare, distanze di sicurezza da rispettare, isolamento forzato. Imposizioni difficili che ci hanno allontanato, nel giro di poche settimane, dalla quotidiana socialità a cui eravamo abituati. Ne abbiamo parlato con Maria Gabriella Landuzzi, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi del dipartimento di Scienze umane.
L’isolamento forzato come misura di contenimento del contagio da Coronavirus ha portato a una socialità ridotta ai minimi termini. Quali le principali conseguenze?
Le relazioni e il contatto fisico hanno un ruolo cruciale per la sopravvivenza e l’equilibrio di ogni persona. La quarantena, portando pesanti restrizioni in termini di relazioni sociali fisiche, ha conseguenze importanti sul benessere psicologico e sociale delle persone. Incertezza, insicurezza e paura legate alla malattia stessa, cambiamenti nel modo di vivere la quotidianità, la restrizione della libertà personale, la lontananza e la separazione fisica dalle persone care e la solitudine, rappresentano, da un lato, un’esperienza personale negativa con esiti anche drammatici, come ha evidenziato la cronaca. Dall’altro lato, la distanza richiesta dall’emergenza va ad incidere paradossalmente sul clima sociale favorendo la riscoperta del senso di appartenenza, l’importanza della condivisione delle regole e della responsabilità verso l’intera comunità, ma allo stesso tempo, influenzando negativamente lo stile relazionale del contatto con l’altro, alimentando il sospetto e la possibile stigmatizzazione sociale ed ostracismo verso i presunti untori.
Come la paura e il panico possono agire nei rapporti interpersonali sul lungo periodo?
Come afferma Beck viviamo in una “società del rischio” e questi sono tempi in cui non siamo nuovi alla paura verso determinate situazioni oppure persone e gli eventi naturali, il terrorismo e lo straniero ne rappresentano esempi assai recenti. Eppure, la paura innescata dal Covid-19, un virus senza controllo, ha immediatamente prodotto situazioni di panico, come ad esempio l’incetta di generi alimentari, disinfettanti, mascherine, guanti. Fa riflettere come tale rincorsa all’accaparramento di beni rappresenti allo stesso tempo espressione sia di salvaguardia di sé sia di chiusura nei confronti dell’altro, un altro che non conosco e che potrebbe nuocermi. Paura e smarrimento legati quindi a ciò che non si conosce e che non si riesce a controllare e che sono state poi ridimensionate da comunicazioni più chiare e autorevoli che hanno fatto sentire ogni singola persona in qualche modo parte di uno stesso insieme. Una comunicazione puntuale attraverso la quale sono state esplicitate decisioni, definite regole ed assunte responsabilità, ha favorito la diminuzione del livello di panico. In questo senso, risulta evidente il ruolo che a qualsiasi livello, da quello strettamente familiare a quello dei media, una comunicazione chiara e corretta ha nel favorire un pensiero aperto, una maggiore consapevolezza e inevitabilmente quindi, quale antidoto alla paura.
L’emergenza si sta rivelando un incontro-scontro con la fragilità umana. Quali cambiamenti può innescare quest’esperienza tanto forte quanto inevitabile?
In questi giorni si è osservato innanzitutto come il distanziamento fisico e il conseguente isolamento relazionale, abbia prodotto un aumento esponenziale delle relazioni virtuali e quindi dell’uso della tecnologia – mai vicini, sempre connessi – in ogni ambito, da quello familiare e parentale, a quello lavorativo e ludico. Se da un lato ciò apre a un’ampia sfera di riflessioni sul ruolo della tecnologia e sui dilemmi etici che si legano al suo utilizzo, dall’altro ha evidenziato la presenza reale di tante risorse inattese: ad esempio nell’apprendimento rapido dell’uso di tecnologie digitali finalizzato al mantenimento dei legami affettivi e sociali (come nel caso di nonni e nipoti); oppure nella capacità di adattamento allo smart working (come trovare spazi fisici e mentali per lavorare in casa in presenza di bambini); o ancora, nel riconoscersi come parti di un insieme e per il quale improvvisamente e nei modi più diversi, sentirsi responsabili (dall’impegno volontario al flashmob), tanto per citarne alcuni. Tutto ciò rileva che anche le criticità degli attuali cambiamenti portano in sé oltre ad aspetti negativi anche l’opportunità di riflettere, una sorta di “punto di svolta” per una sorta di rinnovamento del pensiero che sta alla base del nostro agire personalmente e socialmente.
All’improvviso ci siamo resi conto di quanto la nostra esistenza e il nostro essere in relazione, spesso fonte di problemi e incomprensioni, non sia affatto scontato. Quale lezione può trarne la nostra società?
Innanzitutto, questa esperienza sta rendendo evidente che l’essere umano – come già sottolineato da più autori – in una sorta di delirio di onnipotenza e di controllo, sottovalutando le conseguenze delle proprie scelte, ha generato una sempre maggiore complessità, spesso paradossale. Questi rapidi e forti cambiamenti nelle relazioni quotidiane, capaci di aumentare le incertezze, le insicurezze generando anche scoraggiamento e paura, portano a riflettere su quanto il legame tra le persone sia fondato sulla fiducia nell’altro: nel rispettare le regole di quarantena ognuno ha riposto fiducia nell’altro, non perché fosse sicuro di cosa sarebbe successo ma sperando che l’altro si sarebbe comportato correttamente. Come afferma Luhmann, avere fiducia nell’altro tende a ridurre l’incertezza, a favorire la collaborazione tra le persone nonché l’accettazione dei rischi, ovvero porta a riscoprire un senso di appartenenza e di condivisione con l’intera comunità, con l’idea che “si naviga a vista, ma sulla stessa barca”. Tutto ciò evidenzia però che tale fiducia si può velocemente trasformare in sfiducia, se non coltivata ed educata, sia da processi comunicativi chiari e trasparenti, da processi formativi dove la conoscenza e la ricerca risultano attività fondamentali. Esse infatti, oltre a migliorare la qualità della vita, rappresentano le basi per promuovere uno stile di pensiero che, per tutti e in particolare per le nuove generazioni, sappia favorire, come suggerisce Morin, la realizzazione di una “testa ben fatta” che impari a dialogare con l’incertezza, aprendo la mente e preparandola alla complessità della vita.