La personalità che voglio ricordare è Stefan Zweig (1881-1942), uno scrittore austriaco che, con opere come La novella degli scacchi (1942) o le sue memorie intitolate Il mondo di ieri (1942), è entrato a far parte del canone della letteratura europea e negli anni Trenta era addirittura l’autore di lingua tedesca più tradotto e quindi più letto al mondo. La sua vicenda ha un valore esemplare perché a causa delle sue origine ebraiche subisce il destino tragico di uno scrittore perseguitato dai Nazisti. Non muore ad Auschwitz o in un altro campo di concentramento, bensì si toglie la vita per la disperazione come molti altri compagni di sventura (al pari di Ernst Toller o Walter Benjamin, solo per fare due dei tanti possibili nomi.)
Con la presa al potere di Hitler nel 1933, i libri di Zweig vengono proibiti e bruciati sui roghi, a causa dell’antisemitismo diffuso lo scrittore nel 1934 si vede costretto a lasciare Salisburgo dove viveva da 15 anni. Dopo aver perso i suoi lettori in Germania, quando emigra, lo scrittore deve rinunciare anche a gran parte della sua biblioteca e svendere la sua villa. Il resto della sua vita sarà una fuga continua dai Nazisti e dalla guerra – prima emigrerà a Londra per sottrarsi alle persecuzioni e poi all’annessione dell’Austria alla Germania nel 1938, in seguito si trasferirà da Londra a Bath, per il pericolo delle bombe su Londra, infine davanti allo spettro dell’invasione dell’Inghilterra, la sua fuga si concluderà negli Stati Uniti e in Brasile. Quando i Giapponesi attaccano Pearl Harbor e i sommergibili tedeschi portano la guerra davanti alle coste del Brasile, Zweig si toglierà la vita insieme alla seconda moglie col veronal. È il 22 febbraio del 1942, ha da poco compiuto 61 anni.
Per onorare la memoria di Stefan Zweig in un anniversario come questo si potrebbe ricordare la sua Novella degli scacchi (1942), dove il protagonista subisce le torture della Gestapo e ne resta segnato per tutta la vita. Per la Giornata della Memoria però è ancora più adatto un breve discorso radiofonico che Zweig tiene a Parigi nel 1940 e che è stato apprezzato anche dalla filosofa Hanna Arendt. Si intitola Il grande silenzio. Siamo a due anni dalla cosiddetta “soluzione finale”, che viene presa nel 1942, ma Zweig è ben informato sui crimini perpetrati dai Nazisti contro gli ebrei, nei ghetti e nei campi di concentramento. Quindi decide di dare voce ai quaranta o cinquanta milioni di persone (non solo di origine ebraica) che, in Germania e nei paesi occupati, non possono parlare, che formano quella che lui chiama una “grande zona del silenzio”. Non denuncia, tuttavia, solo come i Nazisti hanno privato della parola milioni di innocenti, ma anche come l’Europa stessa sia rimasta a lungo in silenzio di fronte alle violenze inaudite dei carnefici hitleriani, si indigna per il fatto che le grida d’aiuto dei popoli oppressi sono rimaste inascoltate e ignorate per anni. Per Zweig, si tratta di un silenzio assordante che non gli dà tregua in nessun momento del giorno e della notte, un silenzio innaturale, che lui chiama il “silenzio del terrore”, perché sente rimbombare dentro di sé sente le grida dei perseguitati e dei torturati – grida di disperazione che però nello stesso tempo sono anche grida di indignazione e di denuncia. Quando lo sente, Zweig pensa alle università deserte, ai laboratori abbandonati, agli amici nei campi di concentramento – ai milioni di persone incarcerate nelle loro case che vivono nel terrore aspettando di essere prelevate dalla Gestapo e che, senza una radio, non possono sentire nemmeno una voce di speranza che viene dai paesi liberi. I pochi che riescono a fuggire sono così traumatizzati che non riescono nemmeno a raccontare il destino tragico dei compagni di sventura. Con acuta chiaroveggenza Zweig profetizza che in futuro l’umanità si vergognerà di aver insudiciato con dei crimini indicibili un secolo di cui per tanti motivi sarebbe potuto andare fiera – un dilemma che stride ancora oggi.
Alla fine del suo discorso Zweig invita a non dimenticare in nessun modo questi milioni di perseguitati che, privati della loro voce, si affidano alle “armi dei deboli”: la speranza e la preghiera. Lo scrittore lancia un forte appello ad ascoltare questo silenzio che denuncia, che accusa, che non può lasciare indifferenti. E noi, sessant’anni dopo, che conosciamo il destino di questi milioni, non possiamo che rilanciare con forza il suo appello.
Arturo Larcati, docente di Letteratura tedesca nel dipartimento di Lingue e letterature straniere e direttore del Centro Stefan Zweig dell’università di Salisburgo