Scriviamo questi brevi commenti a quattro mani con il caro Prof. Gino Fornaciari, eminente studioso di paleopatologia di Pisa, che nel 2004 ha condotto l’autopsia sulla mummia di Cangrande, principe di Verona, ed ha coordinato le ricerche su questo eccezionale reperto. In questa occasione, abbiamo avuto la gradita occasione di fornire il supporto analitico del laboratorio di tossicologia della nostra università, collegandoci anche ad altre realtà di ricerca dell’ateneo, prima fra tutte i laboratori di biochimica clinica, allora diretti dal Prof. Guidi.
Da qualche tempo, siamo venuti a conoscenza dei brillanti risultati delle ricerche che il gruppo del Prof. Delledonne ha condotto sul genoma del Principe, che hanno condotto a formulare l’ipotesi che Cangrande fosse portatore di un raro deficit metabolico su base genetica, la Glicogenosi di tipo II, detta malattia di Pompe. Tale condizione, quando fenotipicamente espressa, comporta un deficit del metabolismo del glicogeno e conseguentemente dell’utilizzazione dei glucidi per la produzione di energia. Escludendo giustamente la gravissima forma infantile, le ipotesi che sono delineate riguardano ovviamente una forma tardiva, che si manifesta nell’adulto. Da quanto si legge sul sito dell’Università e, ahimè, anche su quello più generalista di “Dante a Verona 1321-2021” (I Musei di Verona/Comune di Verona), l’interpretazione di questi dati analitici si è spinta ben oltre l’identificazione di una condizione potenzialmente patologica, arrivando ad ipotizzare una causa di morte “alternativa” a quella dell’avvelenamento da digitale, come aveva concluso la nostra precedente indagine archeopatologica e tossicologica. In sostanza, se bene comprendiamo, la morte del principe sarebbe intervenuta a seguito di una crisi acuta di insufficienza respiratoria, come fase terminale della glicogenosi di cui il signore di Verona sarebbe stato portatore.
Qui dobbiamo sinceramente rilevare un deficit interpretativo serio, e purtroppo comune, anche nella scienza più qualificata, che sovente conduce il ricercatore in errore.
Si tratta dunque del “nesso di causalità materiale”, uno dei cardini non solo della scienza empirica ma anche del moderno Diritto e quindi tema cruciale della medicina legale.
Su questo punto, quindi, su un patologico e tossicologico forense, ci permettiamo di esprimere sostanziali perplessità in termini di logica diagnostico-interpretativa. Questa non è on è dunque una critica alla competenza dell’equipe di archeobiologi molecolari e di genetisti che ha operato, di cui apprezziamo le interessanti scoperte, ma piuttosto un “warning” sulla facilità con cui su solide basi oggettive si possono costruire assai fragili teorie.
Dunque, la diagnosi di morte in medicina legale si basa sua una precisa criteriologia nella quale non possono mancare gli elementi anamnestico-clinici, quelli anatomopatologici, quelli di continuità fenomenologica, quelli analitici, nonché l’esclusione di “altre cause”.
Ammettendo dunque la sussistenza della base genetica della cosiddetta “malattia di Pompe”, si dovrà però trovare nella storia clinica, per quanto scarna, elementi suggestivi che avvalorino, o almeno non escludano, l’ipotesi di morte “a causa” del deficit enzimatico che caratterizza la malattia di Pompe.
Questi segni e sintomi, secondo l’Harrison’s Principles of Internal Medicine” (XX Edizione), si sintetizzano come segue: “Gli adulti presentano tipicamente tra la seconda e la settima decade una miopatia lentamente progressiva senza coinvolgimento cardiaco evidente. Il quadro clinico è dominato da una debolezza muscolare del cinto degli arti lentamente progressiva e prevalentemente prossimale. Il cingolo pelvico, i muscoli paraspinali e il diaframma sono colpiti più gravemente. I sintomi respiratori includono sonnolenza, mal di testa mattutino, ortopnea e dispnea da sforzo. L’insufficienza respiratoria causa una significativa morbilità e mortalità nella forma a esordio tardivo. In rari casi, i pazienti presentano l’insufficienza respiratoria come sintomo iniziale. Aneurismi dell’arteria basilare e dilatazione dell’aorta ascendente sono stati osservati in pazienti con malattia di Pompe. Ptosi, debolezza linguale, dismotilità gastrointestinale e incontinenza dovuta a scarso tono sfinterico sono ora riconosciuti come parte dello spettro clinico. Una neuropatia delle piccole fibre, che si presenta con parestesia dolorosa o sensazioni di spilli e aghi, è anche osservata in alcuni pazienti. Gli individui con malattia avanzata spesso richiedono una qualche forma di supporto ventilatorio e sono dipendenti da un ausilio per camminare o da una sedia a rotelle.”
Francamente poco o nulla di questo complesso di segni e sintomi si riconosce nella vita di Cangrande, valoroso condottiero noto per la sua prestanza fisica, come risulta non solo dalle fonti storiche, ma anche dai risultati dell’autopsia, sostanzialmente muta per patologia macroscopica e, nei limiti del possibile, microscopicamente evidente (un quadro di antracosi polmonare era giustificato dall’esposizione prolungata a fumi negli ambienti chiusi). Su questo punto, un fondamentale contributo proviene dall’eccellente lavoro di ricostruzione computerizzata della struttura muscolo scheletrica del Principe pubblicato da Fornaciari et al. nel 2012 (Int. J. CARS, 7 (Suppli 1): S25-S29 che conclude come lo studio ergonomico confermi la descrizione storica del condottiero come uomo che esercitava un’intensa attività fisica legata alla pratica della cavalleria medioevale.
Si deve peraltro considerare che:
- il sequenziamento di due varianti eterozigoti del gene GAA nel genoma di Cangrande non necessariamente significa malattia fenotipica e clinicamente manifesta;
- nel raro caso che ciò si verifichi, sotto forma di malattia di Pompe tardiva, la malattia è in genere o asintomatica, oppure si manifesta con sintomi blandi e ad un’età molto più avanzata di quella in cui Cangrande avrebbe manifestato i primi sintomi (20-25 anni);
In questo quadro, dunque, le “tre crisi” riferibili a malattie manifestatesi in contesti piuttosto eterogenei e che vengono presentate a sostegno dell’ipotesi “alternativa” recentemente proposta possono trovare mille spiegazioni in fatti patologici aspecifici non diagnosticabili dalla medicina del tempo. Irrilevante poi l’affermazione che la preferenza dell’arco invece della spada possa avere un minimo significato a sostegno della debolezza muscolare della persona, conoscendo la grande forza necessaria all’arciere nell’uso dell’arma soprattutto a carico della muscolatura prossimale degli arti.
Non sembra dunque che la teoria “genetica” sulla causa di morte del principe della Scala, possa soddisfare né il criterio anamnestico clinico, né quelli anatomopatologico e della continuità fenomenologica.
Rimane ancora da argomentare circa il criterio tossicologico analitico e soprattutto dell’esclusione di altre cause. In realtà, come è ben noto, gli studi di tossicologia analitica hanno escluso l’intossicazione da arsenico, il principale dei veleni usati in epoca storica. Elevate concentrazioni di piombo riscontrate nel corpo sono giustificate dalle condizioni di vita e dalla dieta del tempo. Invece, ben altro rilievo ha avuto la dimostrazione di concentrazioni molto significative di digossina e digitossina nel fegato e nelle feci. Questi composti glicosidici sono potenti agenti cardioattivi, ancora presenti in farmacopea, contenuti nella Digitale, i cui pollini sono stati pure riscontrati all’esame microscopico nel materiale fecale prelevato dalla mummia. Dunque, questi dati suggeriscono che Cangrande poco prima del decesso abbia assunto in qualche forma (infuso, decotto?) questa pianta contenete potenti composti glicosidici ad azione farmaco-tossicologica. Si è quindi ricercata con successo la presenza dei glicosidi digitalici (digossina e digitossina) nei tessuti della mummia con due metodi immunometrici. Pertanto, l’assunzione di Digitale prima della morte da parte della vittima è stata dimostrata impiegando due tecniche (immunochimica e microscopia) tra loro del tutto diverse.
Questa coincidenza di risultati tra tecniche diverse potenzia grandemente l’affidabilità probatoria del dato scientifico, come riconosciuto dalla moderna scienza forense.
Dunque, “un’altra causa” di morte, di natura tossicologica, esiste e, per di più, si manifesta con una sintomatologia gastrointestinale compatibile con quella che viene riferita durante la malattia fatale di Cangrande, comparsa poco dopo la conquista di Treviso (17 luglio 1329) e che lo condusse a morte il giorno 22. Le concentrazioni rilevate dei due glicosidi digitalici sono del tutto compatibili con quelle di un’intossicazione acuta fatale. Si aggiunga, per concludere, che la Digitale (Digitalis purpurea ed altre varietà) cresce spontanea nelle nostre regioni e quindi era nella disponibilità del potenziale omicida.
Già al tempo della formulazione dell’ipotesi di una causa di morte “tossicologica” ci eravamo posti il dilemma se si trattasse di errore terapeutico o di avvelenamento volontario. Contro la prima possibilità tuttavia stanno tre considerazioni di sostanziali: 1) l’uso della digitale come farmaco è stato proposto solo nel XVIII secolo (William Withering, 1741-1799), mentre nel Medioevo la stessa era considerata giustamente un’”erba velenosa”; 2) considerata la ristretta finestra terapeutica dei glicosidi digitalici (vale a dire la differenza tra dosi farmacologica e tossica) è inverosimile che la tecnologia del XIV secolo potesse produrre una forma farmaceutica utilizzabile in terapia con un minimo di sicurezza; 3) considerando che in epoca storica l’ipotesi di avvelenamento, nel caso della morte dei potenti, sempre aleggiava e che il primo responsabile era costantemente ricercato nel medico curante, è del tutto assurdo che una terapia “sperimentale” fosse tentata su Cangrande, che invece dalle analisi eseguite risulta aver assunto preparati privi o dotati di bassa tossicità a base di camomilla, passiflora e artemisia.
In sostanza, dunque, le considerazioni che qui abbiamo cercato di esporre non possano che avvalorare l’ipotesi di una morte per avvelenamento, evenienza tutt’altro che rara all’epoca, a ragione delle modestissime possibilità di identificazione di questa tipologia di crimine e dunque dell’elevata possibilità che l’omicida restasse impunito. Le ragioni politiche di un simile atto mi sembrano non difficili da immaginare, ma vanno ben oltre le nostre competenze…
Prof. Franco Tagliaro
Prof. Gino Fornaciari
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