“Da Auschwitz non si esce mai, non ci sono parole per raccontare perché sono state svuotate della loro sostanza” e anche quando ci si prova “non basta una vita a raccontare quello che ho visto e ho vissuto”.
Parole: le parole sono ciò che rimane impresso dell’incontro con Edith Bruck, che si è svolto martedì 1 febbraio nell’aula SMT06 del Polo Santa Marta e via Zoom, in occasione del secondo appuntamento di commemorazione della Giornata della Memoria, organizzato dall’università di Verona.
Quando fu deportata dall’Ungheria, sua terra natale, ai campi di concentramento di Auschwitz, Dachau e Bergen-Belsen, Edith Bruck era poco più che bambina e sono state proprio le parole, in diverse occasioni, a permetterle di non morire e non disumanizzarsi, ricordandole di essere una persona e di esistere. Infatti, il suo racconto, intersecandosi con le domande di Michela Ponzano, storica e giornalista, e di Renato Camurri, docente di Storia contemporanea dell’ateneo, ha messo in luce cinque episodi che lei ha definito “momenti di luce”. Sono gli istanti che le hanno fatto percepire, pur nell’orrore in cui era immersa, la speranza e l’umanità con un significato totalizzante.
Tuttavia, le parole sono state salvifiche anche dopo la liberazione del 27 gennaio 1945 perché al loro rientro i sopravvissuti si sono sentiti “una specie di avanzi di vita – come Bruck racconta – non c’erano orecchie ad ascoltarci e, quindi, non ho potuto raccontare quello che ho vissuto. Non è facile essere una sopravvissuta, come non è facile essere una testimone: io ho iniziato a testimoniare da subito perché scoppiavo di parole”. Dopo tanti peregrinaggi, tanti Paesi attraversati e tante sofferenze, Edith Bruck, ha trovato un nido sbarcando per puro caso a Napoli, dove sentì le voci da una finestra all’altra, vide i panni penzolanti, i sorrisi e tutto questo l’ha fatta sentire finalmente accolta. In seguito si è spostata a Roma, dove inizia la sua carriera di scrittrice e testimone della Shoah attraverso la lingua italiana, una “lingua non mia”, come la definisce lei stessa, che però le offre quel distacco emotivo che le consente di descrivere le esperienze vissute nei campi di concentramento.
La sua amarezza emerge in conclusione dell’incontro, nel momento in cui si trova a ragionare con Ponzani e Camurri sul ruolo che oggi ha la Giornata della Memoria, perché “l’uomo ha in parte fallito, l’antisemitismo non è mai cessato in nessuna parte del mondo. Sono passati 75 anni e per i ragazzi di oggi è così distante da sembrare Medioevo, la scuola non ha insegnato quello che doveva insegnare”. Il desiderio di Edith Bruck è, quindi, che la giornata del 27 gennaio possa essere qualcosa di più che l’accumulo di centinaia di interviste che hanno solo l’effetto di far perdere valore e significato agli occhi di chi le guarda.
Le parole conclusive dell’incontro sono le stesse che la Bruck ha pronunciato per tutta la sua vita di testimone “oggi non possiamo dire che non sapevamo, non possiamo negare niente. Io credo che ognuno di noi possa fare qualcosa, non solo noi sopravvissuti che ormai siamo davvero molto pochi”.
Alessia Soriolo, tirocinante UniVerona News
La testimonianza completa nel video qui sotto.