C’è una proteina, in tutte le cellule del nostro organismo, che regola complessi processi vitali. Si chiama Calmodulina e funziona come un vero e proprio “sensore”, rilevando variazioni anche molto modeste di calcio intracellulare. Negli ultimi dieci anni sono diversi gli studi internazionali che associano l’alterazione dei geni che producono tale proteina ad aritmie cardiache gravi, che possono causare la morte anche in tenera età. Un nuovo studio, coordinato dall’università di Verona e pubblicato sulla rivista scientifica Cellular and Molecular Life Sciences (edito dal gruppo Springer Nature), chiarisce i dettagli di questa relazione. I risultati del lavoro “Alterazioni del riconoscimento molecolare fra calmodulina e recettore rianodinico cardiaco nelle aritmie congenite” sono frutto di una stretta collaborazione tra la sezione di Chimica Biologica del dipartimento di Neuroscienze, Biomedicina e Movimento e del dipartimento di Biotecnologie con il gruppo composto da Giuditta Dal Cortivo, Carlo Giorgio Barracchia e Valerio Marino coordinati dai docenti Daniele Dell’Orco e Mariapina D’Onofrio.
Nel genoma umano la calmodulina, presente in tutte le cellule, è espressa da tre geni diversi che producono la stessa proteina. Da circa un decennio è stato scoperto che mutazioni nei geni della calmodulina sono associate a sindromi aritmogene ereditarie, come la sindrome del “Qt lungo (Lqts)” e la tachicardia ventricolare polimorfa catecolaminergica, che alterano il ritmo e la funzionalità cardiaca. Queste mutazioni costituiscono una delle principali cause di morte improvvisa in età giovanile riscontrata in assenza di evidenti disfunzioni cardiache. Alcune ricerche stanno valutando la correlazione tra queste mutazioni e la Sids, ovvero la “sindrome della morte in culla”.
Lo studio si è concentrato sulla caratterizzazione molecolare di cinque varianti di calmodulina associate ad Lqts e sulla interazione tra la calmodulina ed il recettore rianodinico 2, un canale del calcio che svolge un ruolo essenziale nel processo di eccitazione e contrazione delle cellule cardiache. “È stato confrontato – spiegano le ricercatrici e i ricercatori – il meccanismo molecolare attraverso il quale la proteina priva di mutazioni ed i cinque mutanti patogenetici riconoscono questo canale bersaglio, concentrandosi sull’efficienza, velocità e stabilità dell’interazione. Lo studio ha permesso di evidenziare alcune caratteristiche molecolari comuni alle cinque mutazioni, che corrispondono ad altrettante tipologie di paziente affetto da Lqts”.
Per questo lavoro sono state utilizzate le piattaforme di Spettroscopia e Interazioni molecolari e Computazionale del Centro piattaforme tecnologiche dell’università di Verona, integrando tecniche ad alta risoluzione strutturale, come la risonanza magnetica nucleare, con la “surface plasmon resonance” e le simulazioni di dinamica molecolare. “Lo studio evidenzia come un approccio di indagine tipico delle scienze di base e l’integrazione di studi sperimentali e simulazioni computazionali abbia un grande potenziale nel determinare i meccanismi molecolari alla base di patologie rare, per le quali non esiste ad oggi una cura – concludono i referenti – Nell’era della medicina di precisione è indispensabile comprendere al livello molecolare quali sono le alterazioni caratteristiche di ogni paziente. Questo tipo di conoscenza è infatti necessario per la realizzazione di nuovi approcci terapeutici personalizzati sempre più efficaci”.
Il lavoro è stato finanziato all’interno del bando “Prin 2017” del Miur con il coordinamento di Daniele Dell’Orco per l’unità locale.
DOI: https://doi.org/10.1007/s00018-022-04165-w