Alberto Scandola, docente di Cinema, fotografia e televisione nel dipartimento di Culture e civiltà, ricorda il maestro della Nouvelle Vague scomparso a 91 anni.
“Difficile riassumere in poche righe la portata artistica di un autore che occupa, nella storia del cinema, un posto simile a quelli occupati da Joyce nella letteratura o Picasso nella pittura. Perché, come recitano quasi tutti i ‘coccodrilli’ pubblicati in queste ore, Jean-Luc Godard (1930 – 2022) il cinema non lo ha solo realizzato, teorizzato e analizzato, ma lo ha anche stravolto.
Assieme ai compagni di viaggio della Nouvelle Vague, la nuova ondata che nella Francia degli anni Sessanta spazzò via codici, divi e convenzioni del cinema classico, l’ex-studente di Etnologia e critico dei «Cahiers du cinéma» ha infatti proposto un nuovo modo di pensare, scrivere e girare un film: niente più sceneggiature confezionate, attori professionisti, luci artificiali o teatri di posa, ma improvvisazione, attori presi dalla strada, illuminazione naturale e scenografie reali. Il cinema – per citare uno dei tanti aforismi che hanno reso celebre il maestro – altro non è che il cinema e ogni tentativo di raccontare una storia si scontra con l’impossibilità di nascondere il dispositivo finzionale. Chi non ricorda il duetto Seberg-Belmondo sui Campi Elisi in Fino all’ultimo respiro (1960), il sorriso triste della musa Anna Karina in Questa è la mia vita (1962), i tic di Jean-Pierre Léaud in Il maschio e la femmina (1965) o lo sguardo in macchina, complice e malizioso, di Isabelle Huppert in Passion (1982). Sono tutte immagini diventate oggi icone di uno stile che sin dagli esordi si caratterizza per la volontà di invitare lo spettatore a una partecipazione attiva al film, forse più intellettuale che emotiva ma mille volte più gratificante di quella offerta dal cinema grand public. Come recita l’incipit di Le petit soldat (1961, una delle opere più lucide mai girate sulla guerra d’Algeria, «il tempo dell’azione è finito, quello della riflessione comincia». E la riflessione di Godard, nei sessant’anni della sua lunga carriera, ha riguardato soprattutto l’ontologia dell’immagine cinematografica, definita – in Re Lear (1987) – «una pura creazione dell’anima che non nasce dallo scontro, ma dalla riconciliazione di due realtà che insieme vivono più che divise».
Quella che Godard ha messo in crisi, insomma, è la nozione di immagine come mimesis, imitazione di un reale che, nel momento in cui viene rappresentato, assorbirebbe e nasconderebbe il dispositivo che lo “rende presente”. E invece così non è. Filmare un tramonto o un corpo nudo che scende le scale (Adieu au langage, 2014), infatti, non significa necessariamente raffigurare qualcosa, quanto piuttosto «configurare» elementi del reale in un’inquadratura, ovvero in uno spazio regolato da una struttura altra rispetto al reale. Una struttura che, una volta messa a nudo, non può che denunciare la sua natura fittizia di scrittura, poiesis, composizione. Perché il cinema, in fondo, non è altro che il cinema”.
Alberto Scandola