Effetti placebo e nocebo. Sono numerosi gli studi scientifici che in questi anni hanno cercato di far luce sulla loro influenza nei disturbi neurologici funzionali, ovvero quel disturbo caratterizzato dalla presenza di uno o più sintomi solitamente di natura motoria o sensitiva che risultano incompatibili con i danni organici o le malattie che tipicamente ne sono la causa.
Una nuova ricerca condotta dall’università di Verona è stata di recente pubblicata sulla prestigiosa rivista “Nature reviews neurology”. A condurre lo studio, finanziato dal Miur, il team guidato da Mirta Fiorio, docente di Psicobiologia e psicologia fisiologica del dipartimento di Neuroscienze, biomedicina e movimento.
I disturbi neurologici funzionali sono una serie di disturbi caratterizzati da sintomi diversi, quali ad esempio debolezza agli arti, tremore, intorpidimento, perdita di sensi, alterazioni sensoriali, crisi dissociative. Questi disturbi sono causati da un problema nel funzionamento del sistema nervoso centrale. In particolare, si tratta di un problema al “software” del cervello, rispetto che all’“hardware” come invece accade in condizioni come la sclerosi multipla o la malattia di Parkinson.
“In base alla nuova prospettiva emersa, i sintomi possono essere interpretati come risultato di eccessive credenze disfunzionali, ovvero convinzioni irreali che il paziente ritiene veritiere e innegabili – spiega Fiorio -. Tali credenze “sovrastano” l’esperienza sensoriale del paziente, portando all’insorgenza di sintomi percepiti come involontari. Vengono così chiamati in causa l’effetto placebo e l’effetto nocebo. Il primo è un beneficio derivante da aspettative positive rispetto agli effetti di terapie prive di rilevanza chimica, ma che vengono trattate come se avessero proprietà curative, agendo positivamente sulla psicologia del paziente. Il secondo rappresenta invece la reazione psicologica negativa che si sperimenta dopo l’assunzione di un farmaco inerte. Più in generale, l’effetto nocebo può essere considerato come “l’avverarsi” di un’aspettativa negativa che può indurre il paziente a uno stato di insicurezza e angoscia”.
Nonostante diverse ricerche abbiano già indagato l’effetto placebo e nocebo nel disordine neurologico funzionale, in questo caso si è sviluppata una prospettiva più ampia in cui fattori cognitivi, neurobiologici e di personalità giustificano un legame più profondo tra questi ambiti. Grazie alla collaborazione con Michele Tinazzi, docente di Neurologia all’università di Verona e responsabile del centro regionale specializzato sui disturbi del movimento che da anni si occupa di disordini neurologici funzionali, coordinando un registro nazionale di 25 centri, è stato possibile arrivare ad una nuova visione del disturbo. “In particolare – continua Fiorio – si propone un modello esteso di disturbo neurologico funzionale in cui i meccanismi nocebo, basati su credenze negative, contribuiscono alla persistenza e all’aggravarsi dei sintomi. Inoltre, si ipotizza che i due ambiti rappresentino due diverse espressioni di un circuito neuronale che vede attivate aree cerebrali comuni”.
Tra gli scenari futuri presi in considerazione c’è la possibilità di effettuare ulteriori studi che permetterebbero di far luce sulla patofisiologia del disturbo, identificando potenziali biomarker. “Si tratta di indicatori neurofisiologici associati a paura, ansia e stress che potranno diventare il target di terapie più mirate – conclude la psicobiologa veronese. Ciò potrà indurre i medici a plasmare le aspettative del paziente attraverso una comunicazione empatica, intervenendo sulle credenze disfunzionali, per ridurre l’impatto delle aspettative negative. Questo a sua volta potrà portare a una riduzione dei sintomi e a favorire il buon esito del trattamento”.
La professoressa Fiorio si è avvalsa anche della collaborazione di Miriam Braga, Diletta Barbiani e Angela Marotta, ricercatrici in Psicobiologia e psicologia fisiologica all’ateneo di Verona. Oltre a Univr, hanno preso parte allo studio il Centro interdipartimentale Mente/Cervello dell’università di Trento e l’Institute of molecular and clinical sciences, della St. George’s University of London.