Cinquant’anni fa, l’11 settembre del 1973, un colpo di stato militare guidato da Augusto Pinochet e sostenuto dagli Stati Uniti portò alla fine del governo e alla morte del presidente cileno Salvador Allende.
L’assalto e il bombardamento del palazzo presidenziale sono il simbolo della Guerra fredda e delle ingerenze statunitensi nel continente latinoamericano. Con il golpe finiva il sogno di una via cilena e latinoamericana al socialismo, fatta di riforme – agraria, sanitaria e scolastica – fino alla nazionalizzazione di molte imprese. Il cambiamento del paese era tutto all’interno delle istituzioni cilene: antiimperialista sì, come accaduto a Cuba, ma, come disse Allende in un discorso del 1963, “con sabor de empanada y vino tinto”. Le riforme di quel governo democraticamente eletto colpivano gli interessi dei ceti privilegiati, dei grandi proprietari terrieri e delle multinazionali, soprattutto statunitensi.
Non vi furono né empanadas né vino rosso, ma si instaurò la sanguinaria dittatura guidata da Pinochet, ufficialmente durata fino al 1990, e che causò la morte di più di tremila persone. Fu una lunga stagione di stadi trasformati in campi di concentramento, di scuole diventate luoghi di atroci torture. Migliaia le donne stuprate e i desaparecidos, di molti non si è saputo più nulla, inceneriti, gettati in mare da vivi, come facevano altre dittature in quegli anni, nei voli della morte. La repressione fu generalizzata e sistematica. Ben organizzata a livello internazionale grazie all’Operazione condor tra i servizi segreti delle dittature di Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Paraguay e Uruguay, con la complicità di CIA e FBI.
Il golpe ebbe un impatto dirompente in Italia, sulla politica italiana e la società civile: non pochi cileni trovarono asilo (anche a Verona) e numerose furono le manifestazioni di solidarietà e le concrete iniziative. Mai troppo ricordato il ruolo dell’ambasciata italiana a Santiago che accolse centinaia di rifugiati, traghettati poi in Italia. Il golpe cileno è la storia dell’accoglienza pubblica ma anche privata, generosa e silenziosa, degli italiani di allora.
A me toccò in sorte la sfortuna di trovarmi a vivere il 33° golpe della Bolivia tra il 1980 e il 1981, tra università chiuse e coprifuoco dalle 22 alle 6 del mattino. Fu un colpo di stato favorito dai narcotrafficanti di mezzo mondo, dai servizi segreti di altre dittature, da neofascisti italiani e dai paramilitari neonazisti, tra i quali il nazista Klaus Barbie, alias il boia di Lione. Fu feroce e senza sconti la repressione della “Narco-dittatura” del generale Luis García Meza in Bolivia, anche se dopo essere passato in Cile, arrivato ad Antofagasta a ridosso dell’entrata in vigore della Costituzione voluta da Pinochet, capii che era più sicuro tornare a La Paz.
Vita tranquilla quella della stragrande maggioranza dei responsabili degli omicidi e delle brutali torture, anche grazie ad una legge d’amnistia varata nel 1978, sotto la dittatura. Vita tranquilla anche quella di Pinochet. Sconfitto dal voto popolare, lasciò il potere nel 1990, ma rimanendo capo delle forze armate fino al 1998 quando divenne senatore a vita. Arrestato a Londra per crimini contro l’umanità grazie al giudice Baltasar Garzón, che indagava su cittadini spagnoli uccisi durante la dittatura, non subì alcuna estradizione, ma una visita da parte di Margaret Thatcher, che non aveva scordato il ruolo decisivo della dittatura cilena contro l’Argentina durante la guerra delle Falkland/Malvinas nel 1982. E fu il laburista Jack Straw, ministro dell’interno, che negò l’estradizione in Spagna, consentendo al sanguinario dittatore di tornare, in modo quasi trionfale, in Cile, dove morì nel 2006.
Quella dittatura, che racchiude molta storia e politica internazionale, e tanti ricordi di molti di noi, sembra non finire mai. Il Cile negli ultimi decenni si è avviato verso la democrazia, ma con fatica fa i conti con il suo passato. È ancora carne viva. Pochi mesi fa si è stabilito, dopo anni di indagini, che lo stesso Pablo Neruda, premio Nobel e amico di Allende, è morto non di cancro alla prostata ma ucciso da un’iniezione di botulino qualche giorno dopo il golpe. Pochi giorni fa è stato condannato a 25 anni di prigione uno dei boia di Pinochet, un uomo di 86 anni, che si è suicidato dopo la sentenza, colpevole dell’omicidio del cantautore Victor Jara, martoriato in uno stadio di Santiago che ora porta il suo nome. Sono serviti cinquant’anni per illuminare alcuni fatti di quella cruenta dittatura.
A differenza di altri paesi usciti dalle dittature, in Cile è vigente la Costituzione, modificata in alcuni capitoli, voluta da Pinochet. Il paese, tra i più ricchi dell’America Latina, vive profonde ingiustizie e diseguaglianze sociali causate da cinquant’anni di politiche neoliberiste. Il Cile, dove ampie fasce della popolazione sono di fatto escluse dal sistema sanitario e pensionistico, a grande maggioranza ha votato nel 2019 a favore di una nuova Costituzione. Ha eletto un Consiglio costituzionale con il compito di redigere un testo, poi bocciato dal 60% degli elettori nel settembre del 2022. Un testo innovativo: parità di genere, democrazia solidale, tutela dei diritti delle popolazioni autoctone, diritto alla salute, all’aborto, all’istruzione, alla casa, attenzione ai temi ambientali e climatici. Una nuova assemblea è stata eletta nel maggio di quest’anno e una nuova proposta di Costituzione sarà sottoposta a referendum il 17 dicembre. All’orizzonte una seconda bocciatura, tra nostalgici del regime e consensi in caduta libera del giovane presidente in carica Gabriel Boric. Il cammino per lasciarsi alle spalle gli anni della dittatura è ancora lungo.
Felice Gambin, docente ordinario di Letteratura spagnola e delegato del rettore all’Internazionalizzazione