Giochi, lavori, tratti di personalità, attività domestiche, sport e giudizi morali. Nonostante gli importanti passi in avanti fatti in questi anni, gli stereotipi di genere sono ancora duri a morire e sono diversi i campi in cui si ritrovano. A confermarlo una recente ricerca che ha coinvolto 1854 persone da tutta Italia i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista scientifica “Archives of Women’s Mental Health” nell’articolo dal titolo “Everything changes but nothing changes: gender stereotypes in the Italian population”. Lo studio è stato coordinato da Riccardo Sartori, docente di Psicologia del lavoro e delle organizzazioni del dipartimento di Scienze Umane dell’università di Verona insieme ad Alessandra Minelli dell’università di Brescia.
- Professor Sartori, che cosa ha significato per lei collaborare a questa indagine?
Ha significato tornare ad occuparmi di un tema classico della psicologia e delle scienze umane in genere per vedere se anni e anni di dibattiti politici, lotte, film, letteratura, arte, scienza ecc. hanno prodotto un cambiamento reale negli stereotipi di genere. Il titolo che abbiamo scelto per l’articolo, ovvero “tutto cambia ma nulla cambia” vuole subito attirare l’attenzione del lettore sul fatto che, a fronte di cambiamenti sociali, culturali e politici, gli stereotipi di genere sono duri a morire.
- Quali sono i principali risultati?
Il principale risultato è che gli stereotipi di genere resistono al tempo, alla modernità e alla contemporaneità, persino in un’epoca che ama definirsi fluida. Il secondo risultato è che tali stereotipi colpiscono uomini e donne in ugual misura. Un terzo risultato che mi piace sottolineare e far emergere è che al questionario utilizzato per la ricerca hanno risposto in maggioranza donne del Nord Italia con alta scolarità, a fronte di una diffusione capillare del questionario lungo tutta la penisola.
- Quali conclusioni si possono trarre dai risultati e come è possibile migliorare la situazione?
Come psicologo, commenterei i risultati facendo riferimento al bisogno che gli esseri umani evidentemente hanno di categorizzare e mettere ordine nel mondo, anche stabilendo che ci sono “cose da donne” e “cose da uomini”, caratteristiche psicologiche incluse. Su come sia possibile migliorare la situazione, direi che da Jane Austin e “Piccole donne” in avanti si sia già fatto molto a tutti i livelli. Forse potremmo chiudere con una nota positiva dicendo che stereotipo non è già pregiudizio e quindi, anche se categorizzare i generi sembra essere un bisogno della mente, questo non significa che tale categorizzazione diventi automaticamente pregiudizio e quindi discriminazione.
Sara Mauroner