Una nuova scoperta scientifica condotta da ricercatori dell’università di Verona, in collaborazione con atenei italiani e svizzeri, potrebbe aprire nuove strade nel trattamento farmacologico dell’infarto miocardico acuto. Pubblicato sulla rivista Arteriosclerosis, Thrombosis, and Vascular Biology dell’American Heart Association, lo studio dimostra che un metabolita intermedio del prasugrel può compromettere l’efficacia del farmaco, riducendone l’effetto antiaggregante.
Il prasugrel è uno dei farmaci principali utilizzati nei pazienti colpiti da infarto miocardico con sopraslivellamento del tratto ST (STEMI), una delle forme più gravi di infarto. Il suo obiettivo è inibire rapidamente l’aggregazione delle piastrine nei pazienti sottoposti a impianto di stent coronarico. Tuttavia, da anni la comunità clinica osserva una certa variabilità e un ritardo nell’efficacia del trattamento. Fino a oggi, le cause non erano chiare.
Il team guidato da Pietro Minuz, già docente di Medicina interna in ateneo, primo autore e co-corresponding author dello studio, ha identificato un’anomalia chiave: il metabolita intermedio di prasugrel, generato nell’intestino prima di trasformarsi nella sua forma attiva nel fegato, può rimanere in circolo a concentrazioni elevate e interferire direttamente con l’azione del farmaco attivo. La scoperta è stata resa possibile da un approccio multidisciplinare che ha unito analisi farmacocinetiche, studi in vitro su piastrine e simulazioni di dinamica molecolare.
«Abbiamo dimostrato che questo metabolita intermedio si lega al recettore piastrinico P2Y12, lo stesso bersaglio del principio attivo del prasugrel, ostacolandone l’effetto atteso», spiega Minuz. «È come se un doppione si presentasse al posto dell’originale, ma senza portare a termine il lavoro».
Le implicazioni sono di vasta portata: comprendere questo meccanismo consente di spiegare l’effetto ritardato e variabile del prasugrel in alcuni pazienti, ma soprattutto apre la strada allo sviluppo di farmaci più efficaci e rapidi nell’azione, fondamentali nei minuti cruciali successivi a un infarto.
Lo studio è stato complesso essendo basato su uno studio clinico coordinato da Marco Valgimigli e finanziato con un grant dell’Inselspital dell’Università di Berna sul quale è stato sviluppato uno studio sperimentale condotto a Verona, reso possibile grazie al sostegno della Fondazione Cariverona. Ha coinvolto ricercatori oltre che dell’Università di Verona, dell’Istituto Cardiocentro Ticino, Ente ospedaliero Cantonale di Lugano e Università della Svizzera Italiana, delle università di Berna, Federico II di Napoli e Luigi Vanvitelli della Campania e infine della Fondazione Arianna.
«È un risultato frutto di una cooperazione spontanea tra cardiologi, farmacologi, esperti di biologia molecolare e medicina legale – conclude Minuz – motivati dal desiderio di risolvere un enigma clinico che ha avuto un impatto diretto sulla vita dei pazienti.»
Elenco degli autori dell’ateneo, primo autore e autore corrispondente: Pietro Minuz (Primo autore, Co-corresponding author), Alejandro Giorgetti (Co-primo autore), Alessandra Meneguzzi, Francesco Taus, Rui P. Ribeiro, Filippo Baldessari, Marco Castelli, Rossella Gottardo, Federica Bortolotti, Giuseppe Verlato, Cristiano Fava, Franco Tagliaro.