California, 1971. Federico Faggin, giovane vicentino laureato con lode in Fisica all’Università di Padova, si trasferisce negli Stati Uniti per uno stage di sei mesi. Alla Intel lo scienziato trentenne con il pallino della tecnologia e lo spirito dell’inventore disegna e costruisce il primo microprocessore al mondo, l’Intel 4004, il cuore dei primi computer. Un evento che ha segnato l’inizio di una brillante carriera che lo ha reso l’italiano più famoso della Silicon Valley.
Per il suo eccezionale contributo nello sviluppo dell’informatica, sia come scienza che come tecnologia, il 20 maggio Federico Faggin è stato invitato a Verona dove ha ricevuto dal rettore dell’ateneo scaligero Alessandro Mazzucco e dal preside della facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali, Roberto Giacobazzi, la laurea specialistica honoris causa in Informatica. In quell’occasione gli abbiamo chiesto di raccontarci dell’innovazione nella sua esperienza di scienziato, inventore e imprenditore.
Federico Faggin, che cosa significa per lei innovazione?
L’innovazione è un processo ad alto impatto sociale che diventa irreversibile. Richiede creatività come punto di partenza, ma è ben più creativa. Per avere un vero impatto sociale e produrre prosperità economica l’innovazione deve passare attraverso tre fasi distinte: un’idea creativa; il momento in cui l’idea viene realizzata e fatta funzionare; la concretizzazione dalla fase precedente e la sua presa di radici nel mondo. L’idea emerge dalla creatività umana animata e motivata da una energia fattiva, dal desiderio di risolvere un problema, di trovare un modo più efficiente e meno costoso di fare ciò che si faceva prima. Essa è anche un processo distruttivo: nel proporre il nuovo porta a distruggere il vecchio. Dopo che un’idea promettente ha preso vita e sembra che possa funzionare inizia la fase di realizzazione concreta durante la quale essa è trasformata in un prodotto, in un processo o in un servizio che funziona perfettamente e che può essere commercializzato. L’ultima delle fasi dell’innovazione è far sì che l’idea prenda radici nel mondo. Ciò significa introdurre il prodotto sul mercato, avviare le vendite e la produzione e raggiungere un fatturato che consenta di fare profitto.
Quale ruolo ha la ricerca nel processo innovativo?
Spesso quando si parla di innovazione si associa immediatamente la ricerca come se questa fosse sufficiente a garantire innovazione. Essa, al pari della creatività, è solo una condizione necessaria, ma non sufficiente a creare innovazione. La ricerca di base, per esempio, può risultare in scoperte scientifiche con applicazioni pratiche importantissime, ma tra la scoperta di un nuovo principio fisico e la sua applicazione possono passare venti/trent’anni. Il principio del laser, per esempio, fu scoperto nel 1953 per generare microonde. Il primo laser ad emettere luce fu dimostrato nel 1957 e il primo laser commerciale fu disponibile nel 1963. Fu necessario, però, attendere il 1982 per trovare in commercio il compact-disk player: la prima applicazione di massa del principio del laser. Ecco, quindi, che per produrre innovazione non basta stimolare la ricerca, ma bisogna anche creare le condizioni che facilitino il processo imprenditoriale e rendano reperibili le ingenti somme necessarie a finanziare la ricerca e lo sviluppo.
Oggi è un imprenditore affermato nella Silicon Valley. Tornerebbe a investire in Italia?
Non tornerei in Italia, non ora. Il sistema italiano ha perso negli anni la sua grande capacità di innovazione. Ritengo comunque che la crisi economica e finanziaria internazionale sia il momento più opportuno per rivedere le regole del gioco imprenditoriale che è, in fondo, gioco competitivo strettamente legato alla capacità di innovazione di un Paese. Ce lo insegna la Cina che fino a cinquant’anni fa era un considerato un paese sottosviluppato e che conta oggi centinaia di migliaia di imprese tra le migliori al mondo nei diversi settori. Questa gente ha saputo innovare con costanza e intelligenza mandando le giovani e promettenti menti a formarsi all’estero per poi farle tornare a casa e investire sulle loro competenze.
Noi, al contrario, siamo abituati al fenomeno di fuga dei cervelli che di cui lei è un illustre esempio. In che modo potremmo invertire questa tendenza?
Innanzitutto servono nuovi presupposti da parte dei singoli e del Governo. Inoltre creare un grande profitto significa rischiare per un fine giusto che è lo stimolo a cambiare la situazione attuale per migliorarla. In questo processo che deve autoalimentarsi senza aspettare che gli aiuti arrivino dall’alto, giocano un ruolo centrale la curiosità, la spinta a scoprire qualcosa di nuovo e ad accettarlo senza che lo spirito di conservazione prenda il sopravvento. Per questo, dico, dovremmo copiare la Cina.
Il benessere economico di un Paese e la sua capacità di innovare sono strettamente legati?
La capacità di innovazione ha permesso agli Sati Uniti di mantenere uno standard di vita altissimo. La Silicon Valley, oggi centro mondiale dell’innovazione nell’alta tecnologia, settant’anni fa era una zona prevalentemente agricola con poca popolazione e scarse infrastrutture. In quest’area si è sperimentato e perfezionato un metodo vincente: innovare lo stesso processo innovativo. La vera innovazione non è un fuoco di paglia, ma un grande fuoco che si alimenta e persiste nel suo rinnovamento. Nell’ equilibrio dinamico ed espansivo che sussiste tra ciò che è prodotto e ciò che è consumato sta l’unico metodo che consenta di creare ricchezza nella nostra economia globalizzata.