Lorenzo Moretta è senz’altro uno dei più prestigiosi scienziati in campo biomedico riconosciuto a livello internazionale. Direttore scientifico dell'istituto Gaslini di Genova e ordinario di patologia generale e di fisiopatologia all’università ligure, è intervenuto alla cerimonia dei dottorati di ricerca con la lectio magistralis dal titolo “Le cellule natural killer: dal laboratorio alla terapia di leucemie acute ad alto rischio”, ha spiegato le miracolose funzioni di queste cellule, fino a poco tempo fa ritenute inutili e soprannominate appunto “eroi non celebrati”.
Moretta è nato a Genova dove si è laureato nel 1972 e specializzato in microbiologia medica. Nel corso della sua carriera è stato direttore di laboratori internazionali, direttore dell’Istituto nazionale per la ricerca sul cancro di Genova e ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti. Ha all’attivo 442 pubblicazioni internazionali e sua è stata la prima definizione delle sottopopolazioni di linfociti T nell’uomo.
Professor Moretta ci parli della sua ricerca.
La ricerca parte da lontano, da quando abbiamo identificato dei recettori presenti su particolari tipi di cellule, chiamate natural killer, che hanno la capacità di uccidere virus, batteri e cellule tumorali. Di queste cellule non si sapeva nulla fino a che noi non abbiamo identificato questi recettori che ci hanno permesso di capire come funzionano le cellule e di comprendere quali recettori le attivano e quali le spengono. Questa scoperta è stata la base dalla quale siamo partiti per studiare un nuovo tipo di trapianto messo a punto da un gruppo di Perugia guidato dal professor Martelli, dove entrano in gioco le cellule killer derivate dalle cellule staminali del donatore che vengono infuse nel corso di trapianti in pazienti con casi di leucemia ad alto rischio. Nei pazienti per i quali non si trova un donatore compatibile, vengono usate, nel corso della terapia, le cellule staminali dei genitori e le cellule natural killer intervengono per andare ad eliminare le cellule leucemiche residue e riescono quindi a curare la leucemia. Oggi, più della metà dei pazienti vengono curati in questo modo.
Quindi viene già applicata questa tecnica?
Il gruppo di Perugia ha già acquisito una notevole esperienza sull’adulto con leucemie ad alto rischio e noi stiamo portando avanti la ricerca nel bambino con casi di leucemia linfatiche acute rischio che non rispondono a chemioterapie; I risultati sono molto buoni: oltre il 70% dei pazienti sopravvive.
Qual è il suo parere sulla ricerca italiana?
I buoni risultati sono episodici, ma ci sono gruppi che nonostante le oggettive difficoltà che ci sono in Italia funzionano e ottengono dei successi. La forza dell’Italia è stata quella di creare dei veri e propri team. Dato che i piccoli laboratori indipendenti a causa degli scarsi finanziamenti non sarebbero sopravvissuti, come invece accade negli Stati Uniti, in Italia i gruppi sono cresciuti arricchendosi di esperti con capacità notevoli e producono a livello eccellente. Viene da chiedersi purtroppo cosa accadrà in futuro, dato che i leader di questi gruppi sono ormai anziani e non è stato possibile crearne di nuovi a causa della difficoltà di reclutamento.
Che consigli dà ai dottori di ricerca che terminano il loro percorso di studi?
Innanzitutto di mantenere il loro entusiasmo e di rimanere agganciati, se possibile, alla ricerca. Oggi si parla di fuga di cervelli, ma non è questo il problema dell’Italia; caso mai è preoccupante il fatto che non riusciamo ad attrarre ricercatori da altri Paesi, il mercato funziona solo in una direzione. Il mio consiglio è quello di andare all’estero per continuare a studiare o lavorare. Se sono motivati a fare ricerca è giusto che vadano dove ci sono maggiori possibilità. Poi possono sempre rientrare in Italia e portare le conoscenze e le esperienze che hanno acquisito. D'altra parte anche io sono stato all’estero 7 anni ed è un’esperienza che mi ha arricchito e che rifarei.