Umberto Giardini , alias Moltheni, è stato il protagonista del primo incontro al Teatro Camploy del workshow dedicato agli studenti di Scienze della Comunicazione, e che ha coinvolto anche la cittadinanza.
Gli artisti si raccontano. L’evento si inserisce in un ciclo di incontri dal titolo “A lezione di tendenze. Professione artista”, organizzato dall’assessorato alla Cultura del Comune di Verona in collaborazione con la Facoltà di Lettere e Filosofia. Vale la pena partecipare a questa serie di incontri. Gli studenti di Scienze della Comunicazione hanno un motivo in più: un credito F per chi segua almeno 4 date su 5 e consegni una tesina.
Moltheni. Umberto Giardini si avvicina alla musica intorno alla metà degli anni Settanta. “I miei genitori mi portavano con loro a ballare il liscio”, ha raccontato, “e io restavo affascinato a guardare i musicisti che suonavano”. È iniziata così la sua storia con la melodia ed è sempre stato un cantautore fuori dagli schemi. “Non ho mai studiato e ho iniziato a suonare per passione, per istinto – ha proseguito Moltheni nel suo racconto – I miei collaboratori devono fare un grande sforzo per tradurre la mia musica in uno spartito perché io non ho idea di cosa sia un si bemolle o un do minore. Suono e basta”. Il cantante dice di aver vissuto un percorso abbastanza travagliato per arrivare all’uomo e al musicista che è oggi. Il suo lavoro risente dell’influsso della cultura nordeuropea, Paesi come la Scozia, dove è vissuto, ma anche della Svezia, e della musica folk americana. Ha iniziato suonando la batteria, poi, quando il suo gruppo si è sciolto dopo aver vinto l’Arezzo Wave, ha lasciato per alcuni anni per poi riprendere suonando la chitarra.
Gli esordi e la rottura con le major. “Ho inciso il mio primo cd in una piccola sala d’incisione in un vicoletto di Bologna – ha detto – e l’ho mandato alle etichette discografiche che conoscevo. Nessuna mi ha risposto ma mi ha contattato un produttore catanese, Francesco Virlinzi”. È l’uomo a cui Moltheni deve l’inizio della sua carriera. Un produttore che ha sempre creduto in lui. Moltheni e il suo gruppo vengono mandati dall’etichetta discografica Bmg in America per la registrazione di un album. I soldi investiti sono tantissimi, ma una volta tornati, il disco, dalle sonorità troppo rock, non piace ai produttori che decidono di non investire nella promozione. L’album vende 3500 copie ed è un duro colpo per Moltheni che decide di abbandonare la major e rinunciare ad avere un’etichetta discografica alle spalle. I lavori successivi, a partire 2000, sono album dalle sonorità più dure.
La musica: passione e non lavoro. Moltheni ha raccontato che il suo rapporto con la musica italiana è di duro scontro. “Non mi piace il modo in cui gli artisti – quelli che voi chiamate artisti – lavorano. Si fanno pagare decine di migliaia di euro a concerto. Soldi che non meritano”. Da quando ha preso la decisione di non essere supportato da forti etichette discografiche ha dovuto accettare che la musica non fosse più un lavoro ma soltanto una passione. “Faccio il pompiere per pagare le bollette”, ha detto. Il quadro che emerge è di un uomo un po’ amareggiato. “Noi siamo l’Italia che muore”, canta in una delle sue canzoni. Ma quando gli si chiede se valga la pena rinunciare al successo per la propria integrità morale, risponde fiero: “Sì”.