Presentato alla biblioteca Frinzi l’ultimo libro di Giovanni Rapelli, ‘La lingua veneta e i suoi dialetti’, per l'ultimo appuntamento della rassegna 'Io scrivo tu mi leggi'. Presenti all’incontro Giancarlo Volpato, docente di Bibliografia e Biblioteconomia dell’università, che ha redatto la prefazione del testo e Arnaldo Soldani, professore di Storia della lingua e di Grammatica italiana dell’ateneo.
La lingua dei tempi che furono. “Il massimo che ai miei tempi si poteva dire ad una ragazza non era ti amo. – ha esordito Rapelli – In quel caso noi giovanotti ci saremmo sentiti dei Gary Cooper. Ci sarebbe sembrato un approccio falso. Il massimo per noi era dirle te vojo ben”. E in queste parole è racchiusa l’essenza del libro. Un trattato che si muove tra i tecnicismi della lingua volgare e la volontà divulgativa di un libro che tutti possono apprezzare. A cavallo tra la storia della lingua in senso stretto e il sapore genuino di una parlata che ricorda tempi lontani. Quelli in cui si giocava nei cortili e quando arrivava un ragazzino dal Sud Italia non gli si insegnava a parlare l’italiano ma il veneto, come è emerso più volte durante la presentazione.
Quando il dialetto scompare. Se il libro racconta la storia del dialetto e il suo rapporto con l’italiano, si legge anche tra le righe una certa paura per l’imminente scomparsa di questa lingua madre. Ed è proprio questo il significato profondo del dialetto, secondo Volpato, quello di essere la parlata che riporta la mente alle origini, ai rimproveri materni quando si faceva tardi la sera, ai giochi con i compagni di scuola, alle serate in compagnia. Ma perché allora oggi i genitori cercano di insegnare solo l’italiano ai propri figli? Il libro dà una chiave di lettura di questo fenomeno che è rintracciabile nella necessità che l’Italia aveva negli anni Cinquanta di insegnare ai giovani a scrivere e a leggere, essendo uno stato ancora giovane e dovendo far fronte ad un analfabetismo generalizzato. “Il problema è che si è scelto di fare la cosa giusta nel modo sbagliato”, ha detto l’autore. Per insegnare l’italiano si è cercato di eliminare il dialetto. E non solo il dialetto veneto ma tutti i dialetti d’Italia.
Un libro per recuperare le origini. La prospettiva di questo libro, dunque, non è quella esterna in cui si pone uno studioso ma quella interna di chi il dialetto lo vive, di chi l’ha sempre parlato in prima persona. “Potremmo parlare di autodiacromia linguistica”, ha detto Soldani. Questo testo racconta il dialetto attraverso l’esperienza personale dell’autore, che ci ricorda come non fosse impossibile imparare perfettamente la lingua italiana pur essendo dialettofoni. “Tutti noi, professori universitari – ha ricordato Volpato – siamo cresciuti con il dialetto. A scuola la maestra, dialettofona proprio come noi, ci insegnava l’italiano. Con lei lo parlavamo perfettamente durante le interrogazioni e poi, una volta suonata la campanella della ricreazione, tutti ci esprimevamo ancora una volta in quella splendida lingua che ci era tanto familiare”. E se è bello ricordare le proprie origini, nulla di meglio che farlo leggendo un libro che, pur nel rigore della tecnica, conserva il sapore della genuinità.