Giuliana Sgrena, giornalista e scrittrice de "Il manifesto" ha concesso a Univrmagazine un'intervista in cui rivisita alcuni momenti della sua vita di giornalista e non solo prima e dopo il 2005, anno del rapimento in Iraq.
Ha deciso di tornare il Iraq 4 anni dopo il suo rapimento. Perché? Ho deciso di tornare là per due motivi. Innanzitutto perché volevo far conoscere ai lettori la mia persona e il mio vissuto, dal momento che sono stata spesso bistrattata dalla stampa italiana. In secondo luogo perché sentivo il bisogno di tornare nei luoghi della mia prigionia e di affrontarli. Era un percorso che dovevo fare per guarire le ferite del cuore.
È tornata nei luoghi del sequestro? E dove è stato ucciso Calipari? La prima volta che sono tornata in Iraq no… ma poi ho capito che dovevo affrontare quei ricordi per poter andare avanti. Così mi sono fatta coraggio e, con molte difficoltà e reticenze da parte dell’ambasciata italiana a Bagdad, ho trovato un soldato iracheno disposto ad accompagnarmi. È stata durissima: non ho riconosciuto il luogo in cui Calipari è stato ucciso. Forse perché è cambiata la morfologia di quei posti o forse perché non ero ancora pronta ma vi assicuro che quella sera se nono avessi avuto con me una bottiglia di whisky, nessun sonnifero sarebbe bastato a farmi addormentare. Quel giorno è morta anche una parte di me insieme a Calipari.
È stata accusata di "essersela andata a cercare" quando, nel 2005, è stata rapita. Non sono andata a cercarmela, io facevo il mio lavoro e cercavo di farlo nel miglior modo possibile. In quel periodo in Iraq era molto facile venire sequestrati, soprattutto se si usciva dagli alberghi. Ma non è detto nemmeno questo in quanto le ‘due Simone’ sono state rapite nella loro casa. Io prendevo tutte le precauzioni del caso quando uscivo: non dicevo a nessuno dove fossi diretta, cambiavo molte volte il mio percorso e stavo molto attenta che nessuno mi seguisse. Eppure tutto questo non è bastato! Oggi, comunque, il mio modo di lavorare è lo stesso. Questo significa fare il cronista di guerra.
Che cosa pensa dei cosiddetti giornalisti embedded? Io rivendico il mio modo di fare la giornalista. Se non vedo le cose non so raccontarle. Tuttavia, per quello che ho passato, non mi sento di giudicare le persone che si fanno proteggere dai soldati o che comunque decidono di uscire meno possibile dalle proprie stanze d’albergo e si affidano molto ad internet. Questo però non è vero giornalismo. Quello si fa sul campo, dove la gente muore e dove puoi anche rischiare la vita in prima persona.
Com’è la condizione della donna oggi e com’era durante il regime di Saddam Hussein? A discapito di quanto viene raccontato dalla stampa italiana, durante la dittatura di Saddam Hussein le donne godevano del codice di famiglia più progressista del Medio Oriente: erano libere di uscire in gruppo o da sole anche la sera, potevano guidare l’auto e indossare jeans. Con la caduta del regime, nel 2003, sono saliti al potere i religiosi sciiti che hanno abolito quel codice e instaurato un regime religioso integralista, per cui i diritti sono stati compressi e le donne sono state costrette ad indossare veli ma soprattutto burqa , non hanno più potuto uscire di casa o frequentare le università né guidare e tantomeno uscire da sole. Con le ultima elezioni – in cui ha vinto un partito moderato – gli iracheni hanno manifestato una gran voglia di laicità e quando sono tornata in Iraq ho trovato una vita e un fervore che mai mi sarei aspettata. Purtroppo però sembra che i religiosi sciiti stiano riacquistando vigore grazie a degli accordi politici e, se dovessero tornare al potere, sarebbe tremendo per tutti ma soprattutto per le donne.
Qual è l’immagine che ci viene data dell’Iraq e quanto è lontana dalla verità? Oggi non ci viene raccontato alcun Iraq. Se ci si pensa l’Iraq e il suo popolo sono scomparsi quasi completamente dalle pagine dei nostri giornali. Il motivo è semplice: se non si parla di guerra sembra che questa non ci sia e il non parlarne fa comodo a molte persone. Eppure in Iraq, in questi anni, si è fatto molto ma resta da fare ancora tantissimo. Nelle case di Bagdad la corrente va e viene e – chi è fortunato – ce l’ha per poche ore al giorno. L’assenza pressoché totale di servizi sta rendendo la situazione invivibile. Questo inoltre non permette il formarsi di un tessuto sociale ed è molto grave per una democrazia neonata. Stiamo parlando di un Paese che ha delle risorse naturali che, se sfruttate, potrebbero garantire a quella regione un ruolo predominante nell’area Medio Orientale. Bisognerebbe che fossero sfruttate nel modo giusto, ma questo non va d’accordo con gli interessi commerciali europei che, in quell’area, sono enormi.