Durante il convegno “Antropologia e diritti umani” si è parlato anche di donne. Lo ha fatto Elisabetta Didonè, dottoranda all’università di Verona, con un intervento su “Il velo e i diritti delle donne”. Durante la relazione la dottoranda ha fatto riferimento a quella che è stata la sua area di ricerca in Italia, tra Treviso e Venezia, in particolare nella provincia trevigiana di Pieve di Soligo.
Il velo in Bangladesh. “La pratica del velo esiste in molti paesi islamici ma anche in India, come in Bangladesh – dove il velo è conosciuto con il nome di ‘burqa’ – ma non è necessariamente conforme a tutti gli insegnamenti islamici. L’uso del velo – ha spiegato la Didonè – è molto più complesso di quello che pensiamo, ha subìto numerose metamorfosi nel tempo ed è variato anche a seconda della moda. Il velo in Bangladesh risale al 1500 ed è un ornamento usato unicamente con il ‘sari’, l’abito tradizionale indiano. Il nome del velo cambia a seconda delle diverse zone, e quindi non è possibile stereotipare in un solo nome, come ‘burqa’, tutta una varietà che dipende sia dall’età delle donne sia dal paese in cui vivono. Si tratta di una lunga sciarpa colorata di cinque metri in cotone, seta o chiffon ed è un elemento essenziale per le donne indiane e pakistane. Anche i significati del velo sono svariati – ha chiarito la relatrice – il principale fa riferimento al concetto di rispettabilità e onestà attribuito alle donne che lo indossano. Tuttavia nella moda contemporanea è trattato come un accessorio di stile che spezza la monotonia dell’abito, portato o sopra la spalla o drappeggiato sopra il seno”.
Realtà a confronto. Elisabetta Didonè ha proposto il confronto tra due situazioni per comprendere il significato del velo in un paese come il Bangladesh generalmente considerato sessista. “In Bangladesh l’8 aprile 2010 è stata approvata una legge che riconosce la pratica del velo come scelta personale delle donne indossare o meno il velo. Non si parla né di obblighi né di doveri e si aggiunge che una qualunque costrizione è una palese violazione dei diritti umani di base. Nella realtà contemporanea – ha spiegato la dottoranda – la società islamica si dimostra abbastanza aperta alle differenze e il suo sistema di discussione della legge è basato sul diritto individuale, cioè l’interpretazione giurisprudenziale del testo religioso. Non esiste nell’Islam un’autorità centrale che interpreta per tutti i fedeli quali siano i comportamenti ortodossi da tenere. Ogni paese musulmano mantiene i propri usi locali, che cambiano a seconda del tempo e del luogo. In Italia invece – e qui il confronto – un anno fa, accadde che in un supermercato di Pieve di Soligo e poi nel mercato cittadino, alcune donne, vedendo una donna musulmana bengalese che indossava un velo che le copriva anche parte del volto, hanno scatenato il panico chiamando le forze dell’ordine per far allontanare la donna. La legge italiana infatti proibisce la circolazione a viso coperto nei luoghi pubblici che ne impedisce il riconoscimento”.
Discussione aperta. “In seguito alla mia esperienza sul campo – ha raccontato la Didonè – ho avviato dei forum di discussione nei quali le donne bengalesi sono state discriminate sia da parte di donne italiane, ma anche di musulmane. Le reazioni di alcune donne italiane è avvenuta sull’onda dell’anti-islamismo e dell’etnocentrismo culturale come atteggiamento di superiorità femminile occidentale che pensa che le musulmane siano vittime di una cultura e debbano essere liberate. Ma anche alcune donne musulmane marocchine e pakistane – ha concluso la relatrice – hanno dimostrato una sorta di velato ‘razzismo’ nei confronti delle sorelle bengalesi”.