Riportiamo il testo della laudatio di Alessandro Pastore, professore ordinario di Storia Moderna della facoltà di Lettere e Filosofia che ha presentaato la carriera di alpinista, guida, scrittore ma al tempo stesso inquadrando la figura di Maestri anche nella sua vita personale e sociale.
Magnifico Rettore, Chiarissimo Preside, Autorità, Professoresse e Professori, Studentesse e Studenti, Signor Cesare Maestri,
è una tradizione consolidata delle antiche Università, ma ora anche praticata dagli Atenei di più recente fondazione, quella di premiare uomini e donne che si sono distinti in Italia e nel mondo tanto nella carriera scientifica quanto nelle professioni e nelle attività che li hanno fatto emergere in modo significativo nella vita economica, sociale e culturale. Oggi l’Università di Verona – a seguito dell’intelligente indicazione di un collega già professore a Verona ma trentino di studi e di residenza, il sociologo Bruno Sanguanini – ha deliberato di scegliere Cesare Maestri, alpinista di prestigio e guida alpina di fama internazionale, per conferirgli la laurea honoris causa in Scienze motorie. Dei meriti e delle qualità di Maestri diremo a breve. Ma vorrei prima di tutto confutare le ipotetiche perplessità di chi trovasse la nobiltà della scienza accademica contaminata dalla materialità dell’ambiente (non un laboratorio sperimentale d’eccellenza, non un reparto ospedaliero d’avanguardia, non una biblioteca che conserva codici millenari) con cui si è confrontato e misurato Cesare Maestri negli anni che l’hanno visto protagonista indiscusso di un confronto/scontro con la montagna.
A questo proposito un primo punto di riferimento per ribadire la bontà della scelta dei colleghi della Facoltà di Scienze Motorie, anzi un primo “appiglio” – per utilizzare un lessico appropriato – lo possiamo trovare negli scritti di Massimo Mila, musicologo insigne, antifascista militante negli anni trenta del Novecento, scalatore provetto sul granito delle Alpi occidentali. In un articolo degli anni settanta del Novecento (ma le premesse sono già in suo scritto del 1946 dedicato alla memoria di Giusto Gervasutti), il Mila elabora l’idea di alpinismo come fenomeno di cultura, di una cultura che non si esercita attraverso lo studio a tavolino o in laboratorio ma “si esplica attraverso il fare”; anzi l’alpinista – continua l’autore – “riunisce in sé le categorie del pensiero e dell’azione, duplice gloria dell’Uomo” e dunque “conosce agendo”. Terminologia un po’ alata e filosofeggiante in forma crociana; ma l’idea di fondo sottesa a queste espressioni la possiamo trovare confermata dall’esperienza di alcuni alpinisti di punta del nostro tempo, quale appunto Maestri, come anche dalle testimonianze dei pionieri ottocenteschi.
Infatti, risalendo indietro nel tempo rispetto a Mila, possiamo scorgere altri e robusti “appoggi”. Come molti sanno, Quintino Sella, geologo e mineralogista, Ministro delle finanze del Regno d’Italia è stato anche uno dei padri fondatori del Club Alpino Italiano, nato nel 1863 (e di cui si celebrerà il 150° nel corso del prossimo anno): una fondazione non creata a tavolino ma decisa nel vivo di un’ardua (per i tempi) e faticosa salita al Monviso, dando vita prima a Torino, poi nelle città maggiori e minori della penisola, ad un circolo che spronasse gli italiani, e specialmente i giovani a “dar di piglio al bastone ferrato, ed a procurarsi la maschia soddisfazione di solcare in varie direzioni e sino alle più alte cime queste meravigliose Alpi”. Né la vicenda di Quintino Sella rappresenta un “unicum”: in altri momenti dei successivi 150 anni e con intendimenti non sempre collimanti con quelli dello scienziato piemontese la storia dei dirigenti e dei soci impegnati nel CAI (e con essi degli uomini e delle donne che hanno dato autonomamente prova delle loro qualità sulle pareti di roccia e sugli itinerari di ghiaccio) è fittamente popolata di figure che hanno operato sia all’interno del comparto delle scienze naturali (si pensi ad un altro geologo del tardo Ottocento, Antonio Stoppani, autore de “Il Bel Paese”, un autentico best-seller dell’Italia unita), sia nella cultura storica (basti citare due grandi storici del Novecento, quali Federico Chabod e Franco Venturi), sia in quella letteraria: qui un solo nome, quello dello scrittore bellunese Dino Buzzati, dolomitista ed autore di reportages ed articoli raccolti in due volumi intitolati I fuoriclasse della montagna nei quali troviamo anche una prefazione ad un libro di Maestri e altri interventi giornalistici dedicati all’alpinista trentino. E ricordiamo anche un grande sacerdote e studioso maltrattato dalla Chiesa e dallo Stato, Ernesto Buonaiuti, che considerava l’alpinismo la forma moderna dell’ascesi spirituale.
Ma prima di riferirci agli articoli e agli interventi comparsi sulla stampa e sulla pubblicistica specializzata, è bene andare direttamente alle fonti e alla documentazione originale, e dunque agli scritti di Cesare Maestri che ci danno conto della sua attività, dei mutamenti profondi che egli introduce nella pratica alpinistica, della personale e originale visione che distingue il suo contatto con la roccia e con il ghiaccio. Nel 1961 l’editore Garzanti pubblica Arrampicare è il mio mestiere di Cesare Maestri. Nella prefazione Dino Buzzati sottolinea che, oltre ad essere una testimonianza diretta di imprese eccezionali, il libro offre un ritratto dell’uomo Maestri, e dunque fa risaltare il suo temperamento e il suo carattere, senza indulgere ad una cifra retorica ed enfatica che troppo spesso (allora come anche oggi) caratterizza la letteratura alpinistica. Le pagine di Maestri riflettono il primo decennio di attività alpinistica intrapresa dal 1948, oltre a rivelare alcune tracce (che saranno ampliate nell’autobiografia del 1996) sulla parentesi di vita romana nell’immediato dopoguerra, nella prospettiva di frequentare l’Accademia d’Arte Drammatica, seguendo le orme dei genitori e della sorella attori di teatro. La formazione e l’apprendistato su pareti, spigoli, fessure e camini delle montagne trentine procedono celermente, e Maestri passa – secondo un percorso professionale consolidato – dal ruolo di istruttore nazionale a quello di “portatore” e infine di guida alpina. Ma molto più personali e originali di quelle consuete sono le modalità che Maestri adotta nell’arrampicata su roccia dispiegata soprattutto sul Gruppo di Brenta, quello della Civetta, del Catinaccio e del Sassolungo, sulla Marmolada: la salita non più in cordata a due ma in solitaria; la discesa sulla stessa via dell’ascesa, senza ricorso alla corda doppia; il superamento in artificiale di “tetti” e di tratti di parete strapiombanti privi di appigli e di appoggi con l’ausilio delle staffe (scalette di corda e di alluminio), a manovre complesse di corda e ai chiodi ad espansione. Anche senza essere specialisti della materia, si può facilmente capire quanto questa pratica alpinistica su difficoltà estreme imponga allenamenti di grande impegno, capacità di padroneggiare tecniche sofisticate ed infine il possesso di qualità morali non comuni.
Siamo così sulla linea che Quintino Sella aveva enunciato nel 1874 ad un congresso del Club Alpino Italiano nel quale indicava come motto per i giovani alpinisti italiani quello di “saper durare, perdurare e soffrire”. Circa un secolo più tardi questo addestramento alla durezza della fatica fisica restava valido ma doveva essere accompagnato – nel caso esemplare di Maestri – da capacità tecniche elevate e soprattutto da un elemento essenziale: come afferma l’autore di Arrampicare è il mio mestiere, “arrampicare in sé non è nulla ma il suo significato sta nella forza di volontà, nell’amore verso la vita”. Tenacia, determinazione, forza di volontà costituiscono un ingrediente essenziale: la conquista del Cerro Torre in Patagonia insieme a Toni Egger suggerisce a Maestri la seguente riflessione: “abbiamo dimostrato che per vincere non servono i milioni, abbiamo dimostrato che cosa può fare la volontà”. Il secondo elemento è quello dunque dell’“amore della vita”, ovvero del saper evitare il più possibile le situazioni di pericolo, rinunciare all’azzardo inutile e dunque procedere in una condizione di sicurezza. Le vittorie in solitaria sono il risultato – scrive in proposito Maestri – di una combinazione “di tecnica e di gioia di vivere”.
Il rischio imprevisto o imprevedibile, la perdita del controllo psicologico, le condizioni climatiche avverse, le cadute rovinose di massi e di formazioni di ghiaccio sono elementi che giocano invece contro la vita. E’ un tema che non sfugge al Maestri, alpinista, guida e scrittore, e che lo porta a confrontarsi con la morte incontrata in montagna, da quella di Egger al Cerro Torre a quella di Raffaelli sulla via Soldà alla Marmolada. Così nell’atto della conquista della vetta prima si ricordano i compagni perduti ma poi si ritorna alla vita, come annota Maestri in una bella pagina di Arrampicare è il mio mestiere, al termine della narrazione del vittorioso superamento, con Claudio Baldassarri, della direttissima alla Roda di Vaél tracciata sul “pauroso balzo della Parete Rossa mai toccata da mano di alpinista” (secondo quanto riportava il volume dedicato al gruppo del Sassolungo, del Catinaccio e del Latemar della Guida dei Monti d’Italia pubblicata nel 1942).
Il problema di garantire il massimo grado di sicurezza in salita e in discesa lo ritroviamo anche tra le pagine dell’autobiografia non a caso intitolata … E se la vita continua (edita nel 1996 e più volte ristampata), dove l’autore non risparmia la sua riprovazione verso quegli alpinisti che “per presunzione, incapacità o inesperienza fanno stragi di innocenti”. Altre critiche, ma di diverso tenore, affiorano nei confronti dei cosiddetti “puristi”, cioè di quanti si oppongono all’utilizzo dei chiodi a pressione nella progressione in parete; gli autori di questo biasimo appaiono portatori di una forma di intolleranza agli occhi di Maestri, che considera l’alpinismo anche come la manifestazione di uno spirito libertario. Questo argomento è sollevato anche nelle pagine introduttive all’edizione del 1966 del manuale intitolato A scuola di roccia con Cesare Maestri (Bologna, Cappelli) dove l’autore osserva che due tendenze negative segnano l’alpinismo del suo tempo: l’intolleranza (quando alcuni alpinisti si ergono come depositari della verità, tutori di una personale etica alpinistica che deve essere condivisa, critici della maniera moderna di arrampicare) e l’antistoricismo (mentre a parere di Maestri ogni impresa va collocata nell’epoca in cui è stata realizzata, considerando i mezzi, le tecniche, la qualità dell’equipaggiamento). “Solo se lo storico studia il fatto in rapporto all’epoca in cui è avvenuto avrà un’esatta misura del valore del fatto stesso”: sono parole con le quale l’alpinista esprime anche una corretta valutazione di metodologia storica.
E’ ben noto che le dispute e le controversie hanno agitato e diviso il mondo alpinistico sin dalle sue origini, ma l’atteggiamento di Maestri, che pure non rifugge dallo spirito polemico, è anche quello di valutare, storicamente appunto, i meriti e le qualità degli uomini che l’hanno preceduto o che arrampicano contemporaneamente a lui. Un riconoscimento significativo è quello riservato agli alpinisti trentini degli anni ’30 e ’40 del Novecento, un ‘epoca d’oro’ e di cui la generazione successiva – osserva Cesare Maestri – deve apprezzare il carattere schivo, il mito quasi religioso dell’Alpe, l’atteggiamento verso la montagna “un po’ bigotto, retorico, provinciale ma grande, onesto, mistico ed entusiasmante”, quello ad esempio che caratterizzava Gino Pisoni o Bruno Detassis. Un ambiente che è vicino ma che resta anche un po’ distante dal giovanissimo Cesare Maestri che brucia le tappe del suo itinerario professionale e che – come ammette lui stesso – concepisce e legittima l’alpinismo anche come un percorso di ascesa sociale: “non come un fine ma come un mezzo per potermi inserire nella società”. Le “imprese” del “fuoriclasse” – per usare le parole di Dino Buzzati – non possono essere elencate in questa sede, anche per la loro numerosità: circa 3.000 salite di cui almeno 1.000 in solitaria vengono conteggiate dall’Enciclopedia delle Dolomiti (Bologna, Zanichelli, 2000) di Franco de Battaglia e Luciano Marisaldi.
Quantità dunque ma anche qualità che – nel campo d’azione dell’alpinismo su roccia e su ghiaccio – si proietta su difficoltà estreme su linee, direzioni e itinerari prima non percorsi ovvero ripresi con un valore aggiunto di complessità (durante il periodo invernale; in solitaria; ridiscendendo lungo la stessa via di salita). E ancora, andrebbe considerato lo spostamento dello scenario dalle zone raggiungibili da Andalo, Canazei e Madonna di Campiglio, cioè le località montane ove Cesare ha successivamente abitato, ad altri teatri che implicano un’alternanza di successi e di mancate conquiste, come alla parete nord dell’Eiger o al primo tentativo al Cerro Torre in Patagonia. Qui – come alla ripetizione invernale della via Siegert alla Cima Grande di Lavaredo nel 1963 – alla rinuncia segue il ritorno coronato dal successo. Alcune di queste vicende hanno suscitato fiumi d’inchiostro e polemiche roventi, su cui non intendo soffermarmi, ma è corretto ricordare che non tutto nel mondo alpinistico è pace, fraternità e distacco dalle passioni della pianura.
Al di là delle cronache giornalistiche di tali eventi, non mancano le valutazioni competenti espresse nell’immediatezza delle imprese realizzate da Maestri, da Dino Buzzati che lo definisce “fuoriclasse di estrema avanguardia” e dotato di “un carattere insieme bellicoso e romantico” a Massimo Mila che nel 1963 lo indica come una “punta di diamante” dell’alpinismo italiano per il livello tecnico e le qualità fisiche. Ma, quasi quarant’anni dopo, il giudizio sull’alpinista e sull’uomo risulta consolidato e riaffermato: Maestri è stato il protagonista di una “stagione irripetibile, a cavallo fra la vecchia concezione romantica dell’alpinismo e la nuova dimensione di exploit sportivo” che ha aperto “orizzonti totalmente innovativi, di padronanza tecnica, ma soprattutto di concentrazione interiore, all’alpinismo in solitaria” (F. de Battaglia – L. Marisaldi). In queste valutazioni ritroviamo la conferma di quanto si diceva all’inizio, cioè dell’idea di un alpinismo come forma di cultura che – nel caso di Maestri – si arricchisce di un’altra dimensione, quella della passione civile e sociale, della difesa della natura alpina, elementi che ne segnano sul lungo periodo – come dimostrano efficacemente le pagine della sua autobiografia -: dall’esperienza di staffetta partigiana in Trentino e dall’impegno politico nella Roma dell’immediato dopoguerra alle battaglie contro la speculazione edilizia per la salvaguardia dell’ambiente naturale della montagna. Per concludere, vorrei riprendere la pagina finale che Massimo Mila dedica alla sua panoramica, scritta mezzo secolo fa, sulla storia dei primi cento anni dell’alpinismo italiano: egli scrive che “la ghirlanda” di uomini che vi hanno dato prova rappresentano “una galleria meravigliosa […] una forza della nazione […] una categoria di uomini privilegiati”. Parole scritte cinquant’anni fa e dal sapore un po’ ‘retro’ ma che appaiono condivisibili nella sostanza. E’ giusto che un paese individui i suoi cittadini migliori e li indichi come esempio alle generazioni future. Ed oggi la nostra Università attribuisce questo segno distintivo ad uno di questi italiani, a Cesare Maestri.
di Alessandro Pastore