Non bisogna avere paura degli scambi internazionali. Ne è convinto Ivano Dal Prete, che, proprio grazie alla sua formazione all'ateneo scaligero, ha avuto in questi anni l'opportunità di lavorare in centri di ricerca la cui eccellenza è riconosciuta a livello internazionale. In questa intervista ci spiega il suo percorso professionale e illustra i punti di forza e debolezza dell'ateneo scaligero rispetto alle università degli Stai Uniti. Il tutto senza ovviamente dimenticare alcuni preziosi consigli rivolti agli studenti di scienze umanistiche.
Può per favore illustrarci in maniera sintetica il suo percorso di studi e professionale?
Mi sono laureato in lettere con indirizzo storico moderno all’università di Verona nel 1999, e ho conseguito il dottorato in “Storia della societa’ Europea” sempre a Verona nel 2005. In seguito ho lavorato per 3 anni all’Istituto per lo studio del pensiero scientifico e filosofico (CNR-ISPF) di Milano, curando l’inventario e la pubblicazione on-line di corrispondenze scientifiche di età moderna. Nel frattempo ho pubblicato la mia tesi di dottorato, svariati articoli e ho cercato di lavorare il più possibile e di farmi conoscere in ambito internazionale. Nel 2008 ho avuto la possibilità di trasferirmi negli Stati Uniti con un piccolo contratto, e francamente non ci ho pensato due volte perché sia dal punto di vista economico che professionale in Italia non vedevo sbocchi. Negli ultimi anni ho condotto attività di ricerca e insegnamento presso l’Università del Minnesota, Columbia University e Yale. È ancora dura perché la crisi economica ha colpito anche qui soprattutto i dipartimenti umanistici e il mercato del lavoro non è mai stato così difficile, ma è comunque una grande esperienza e non tornerei indietro.
Qual è il valore della formazione accademica a Verona che a suo avviso emerge nel confronto con i suoi colleghi stranieri?
La formazione che ho ricevuto nella facoltà di lettere è stata buona, niente da dire da questo punto di vista. Ho trovato professori competenti e ben preparati, il liceo che ho frequentato ha avuto molti meriti fornendomi un’ottima base. Mi sono certamente ritrovato con una preparazione solida, senza dubbio diversa da quella che fornirebbe un’università americana ma in molti casi superiore. Bisogna dire, però, che in America il “college” è visto come il luogo in cui si acquisisce una preparazione di base orientata in una certa direzione, più che specialistica; ogni studente deve acquisire crediti sia in ambito umanistico che scientifico, indipendentemente dalla sua scelta finale – ingegneria, medicina, legge, storia o quant’altro – che in genere avviene solo al secondo o anche al terzo anno. Nel mondo di oggi non è per niente una cattiva idea. Lo studente italiano si affidava per questo al liceo, spero sia ancora di buon livello e che certi programmi siano stati finalmente aggiornati.
Qual è il ricordo più significativo che conserva dell’esperienza universitaria veronese?
Percorrere secoli di storia e di arte, semplicemente camminando per andare a lezione. Sul serio, si tratta di un vantaggio sistemico formidabile dello studente italiano a cui non si pensa finche’ non si va ad insegnare in posti come Minneapolis: una citta’ piena di gente curiosa, simpatica e amichevole, ottimi teatri e ottima musica, ma costruita sì e no cent’anni fa in mezzo ad una prateria sconfinata in cui pascolano ancora i bisonti (peraltro molto buoni alla griglia). Un ragazzo del Midwest puo’ contare su ottimi musei e bellissime biblioteche, ma crescerci in mezzo e’ un’altra cosa.
Quale consiglio può dare ai giovani che si apprestano ad intraprendere un percorso di studi nell’ambito della storia e delle scienze umanistiche?
Posso parlare ovviamente per il mio ambito, cioè la storia moderna. Il primo consiglio è di non farsi illusioni. Ma se proprio uno decide di voler fare quello, è imperativo rendersi conto che l’Europa non è più il centro del mondo nemmeno dal punto di vista culturale; l’Italia, in particolare, è un posto abbastanza marginale (storia dell’arte a parte). I docenti universitari non devono assolutamente aver paura di fornire testi in Inglese, e gli studenti devono fare lo sforzo di leggerli. Il trend è verso la “global history”, del tutto comprensibile perché posti come la Cina, l’India, la Turchia adesso contano (e hanno soldi) e non vedono l’ora di acquisire, oltre alla tecnologia occidentale, anche la sua eccellenza accademica in ambiti umanistici. Contano gli scambi, le intersezioni economiche e culturali, ed è importante la possibilità di maneggiare fonti anche in qualche lingua non europea; per un modernista può essere ad esempio un’ottima idea imparare a leggere l’arabo o il turco. Un consiglio che darei invece all’università italiana in genere, è di finirla con l’assurdo livellamento verso l’alto dei voti nelle facoltà umanistiche; il mercato del lavoro è già difficilissimo e super-affollato di suo, è giusto che il “pezzo di carta” permetta almeno di distinguere il talento l’impegno. Ma mi rendo conto che si tratta di una chimera.
01.09.2014