Decrescita come via di uscita dalla crisi. È il tema che sarà affrontato da Serge Latouche, economista e filosofo francese che sarà ospite in ateneo giovedì alle 20.45 nell’aula T2 del Polo Zanotto. L’incontro è organizzato dall’ateneo in collaborazione con il giornale online Verona In. Dialogheranno con lui Olivia Guaraldo, docente di Filosofia politica dell’università di Verona e Paolo Ricci, medico epidemiologo della redazione Cultura di Verona In. Proprio a Ricci abbiamo chiesto di anticiparci alcune questioni di cui si parlerà nel corso della serata.
Perché invitare a Verona l'economista e filosofo Serge Latouche?
Non è la prima volta che Latouche ha raggiunto Verona, come altre città italiane. Però è sempre venuto come invitato da ambienti non istituzionali, e piuttosto lontani dai grandi media, cioè il mondo dell’associazionismo. Eppure paradossalmente Latouche è molto noto a livello internazionale sia in ambiente accademico, da cui per altro proviene essendo un riconosciuto ed insigne studioso, sia a livello mediatico. La ragione credo risieda nel fatto di una certa idiosincrasia delle Istituzioni verso il suo pensiero, una sorta di a-priori ideologico, perché mette in discussione non solo il sistema economico, i cosiddetti rapporti di produzione, come ad esempio fecero le ideologie rivoluzionarie del ‘900, ma i fondamenti della stessa economia che tutto il mondo pone contemporaneamente come causa e rimedio dei mali che ci affliggono. Non credo sia un caso che ad accettare di interloquire con Latouche sia stato un universitario di Filosofia e non di Economia….
Penso che la scelta di Latouche di uscire dall’Accademia e di rivolgersi ad un target di popolazione differente e più disponibile a mettere in discussione, anche nel quotidiano, alcuni “principi immutabili” sia stata salutare. Ora si tratta però di bussare alle porte delle nostre istituzioni che ci devono rappresentare per porre con determinazione problemi e soluzioni che non possono più essere ignorati e che sono proprio alla base della profonda crisi che coinvolge l’intero Occidente. Lo “sviluppo per lo sviluppo” ha tradito tutte le sue promesse: la crisi incalza senza tregua, le diseguaglianze sociali aumentano, i conflitti di ogni natura incombono, l’inquinamento diventa sempre più percepibile e le ricchezze naturali del Pianeta si consumano molto più rapidamente di quanto possano essere reintegrate. Gli scienziati, ormai a stragrande maggioranza, rilanciano proprio in questi giorni un allarme sulle conseguenze del mutamento climatico indotto da una attività antropica che rifiuta di porsi ogni sorta di limite.
Queste sono le riflessioni che mi hanno spinto a sollecitare l’università, sede naturale del pensiero critico, ed un giornale (on line) imparziale ma non neutrale come Verona in, ad invitare Serge Latouche per dibattere su temi di così ampia quanto attuale portata.
Cos'è la decrescita secondo Latouche?
La risposta di Latouche è la decrescita. Sarebbe sciocco pensare che decrescere significhi continuare a produrre di meno le stesse cose che produciamo ora. Questo sì vorrebbe dire aggravare la crisi, aumentare la disoccupazione, deprimere i consumi necessari ad una economia fondata sulla crescita fine a se stessa.
E’ notorio che il mercato è a-morale, cioè totalmente indifferente a ciò che si produce e si vende, perché il suo fine primario è la massima generazione di ricchezza nel minor tempo possibile. Se questo si ottiene più facilmente costruendo armi, vendendo droga o trafficando in organi umani, prima o poi si fa, senza problema alcuno, al massimo con qualche pelosa ipocrisia, ormai raramente con senso di colpa.
Si tratta quindi di sostituire il ben-avere con il ben-essere. Se il ben-essere si ottiene dirottando i capitali destinati alla produzione di armi verso la produzione di servizi per la maternità o l’assistenza agli anziani, si fa, se questo lo si ritiene socialmente più benefico. Anche queste scelte consentono occupazione ed innescano meccanismi virtuosi. Se bonificare i siti contaminati del nostro Paese, assicurarne l’assetto idro-geologico produce più benefici rispetto alla costruzione di grandi opere infrastrutturali, si fa. Anche queste attività richiedono investimenti in ricerca e tecnologia, nuova occupazione ed altri indotti. Se mangiare arance d’estate e fragole d’inverno aumenta l’inquinamento ambientale per effetto dell’incremento dei trasporti di queste merci da una parte all’altra del globo, si aspettano le stagioni e basta.
Le priorità non devono cioè essere motivate dal maggior Pil raggiungibile nel breve periodo, ma da ciò che, a prescindere dalla massimizzazione dei profitti, si ritiene conduca ad un maggior benessere per la collettività, ponendosi come unico limite il pareggio di bilancio, non economico, ma tra consumo e reintegro del Pianeta. Uscire dall’economia e decrescere significa non sottostare più a leggi che non concorrono nei fatti a risolvere i problemi che affliggono la società a cui la cosiddetta “mano invisibile del mercato” è totalmente indifferente, perché preoccupata unicamente di accrescere se stessa, e il più possibile.
Decrescita non è quindi sostenibilità ambientale e neppure green-economy. Infatti queste sono categorie che comunque riconoscono nel mitico Pil la priorità assoluta nei cui confronti pongono soltanto dei correttivi per diversamente crescere, rappresentati appunto dalla compatibilità ambientale, intesa come tecnica di efficienza da applicare al processo a-finalistico della crescita. Tuttavia non ne ribaltano certamente il primato, che rimane la loro stella polare di riferimento. Questa è la radicale discriminante tra due opposte visioni del mondo, che solo incidentalmente possono condividere alcuni obiettivi.
Questo concordo con Latouche. Quello che mi divide è forse la valutazione sulle strategie della transizione e la loro fattibilità.
La sua conoscenza con Latouche è legata alla condivisione di una comune linea di pensiero. Che legame esiste tra epidemiologia e decrescita?
L’epidemiologia è una disciplina di matrice anglosassone che si propone di studiare il rapporto tra salute e ambiente inteso nella sua più ampia accezione socio-economica e geo-politica. A differenza della clinica medica non ha per oggetto il singolo, ma una determinata popolazione. L’identificazione e la pesatura dei numerosi fattori di rischio che si incontrano negli studi epidemiologici mi hanno fatto comprendere come molto spesso questi stessi rischi rappresentino “il prezzo” che deliberatamente si è deciso di pagare ad una crescita economica che, sulla base di sistematiche evidenza storiche, ha lasciato sul terreno tante vite spezzate da un lavoro e da un abitare insalubre, spesso aggravati da profonde diseguaglianze sociali. Di questo proprio pochi giorni fa ha trattato il 38esimo congresso dell’Associazione Italiana di Epidemiologia (Aie) che si è tenuto emblematicamente a Napoli. Queste constatazioni scientifiche, che hanno segnato la mia attività professionale, mi hanno fatto incrociare il pensiero di Latouche, con il quale la prevenzione primaria della salute non può esimersi quanto meno di confrontarsi.
10/11/2014