Introduzione
Anche quest’anno ritengo doveroso iniziare la relazione con un sentito ringraziamento a tutto il Personale, docente e tecnico-amministrativo, per la fattiva collaborazione che ha consentito di progredire ulteriormente nelle attività di ricerca, didattiche e di interrelazione con il Territorio.
Durante l’anno accademico appena concluso è proseguita l’azione di rafforzamento dell’attività di ricerca svolta da questa Università. Sono stati riordinati i dipartimenti delle macroaree delle Scienze della vita e della salute, nonché delle Scienze umanistiche. Grazie ai buoni risultati finanziari ottenuti, frutto della elevata qualità della ricerca e dell’oculatezza nell’uso delle risorse, abbiamo potuto stanziare fondi straordinari, per complessivi 4,3 milioni di euro, per sostenere la ricerca di base, la ricerca applicata e il trasferimento tecnologico; per rinnovare e ampliare le attrezzature. È stato costituito il Centro per le piattaforme tecnologiche, al fine di razionalizzare ed estendere l’uso delle infrastrutture di ricerca. Sono stati assunti 20 giovani ricercatori. Sono state finanziate 99 borse triennali di dottorato di ricerca, anche grazie al generoso contributo erogato dalla Fondazione Cariverona e dal Banco Popolare. Per il sostegno alla ricerca siamo riconoscenti anche a privati cittadini, che generosamente ci hanno fatto lasciti ereditari. Per questo desidero ringraziare le signore Margherita Moretti, Elsa Sambugar e Laura Cioffi. Siamo inoltre grati ai Contribuenti che hanno destinato a noi le risorse del “5 per mille”.
Sul fronte della didattica, le azioni di rafforzamento delle collaborazioni internazionali, di consolidamento delle strutture e di razionalizzazione delle procedure hanno consentito di mantenere elevata la qualità dei corsi di studio e il numero degli studenti iscritti, che stanno dimostrando un crescente interesse per la nostra offerta formativa. Il tasso di variazione del totale degli iscritti in questo anno accademico è decisamente positivo. Molti giovani hanno riposto in noi fiducia per proseguire il loro percorso di studi. Voglio ricordare che l’attività di orientamento nei confronti dei nostri laureati ha beneficiato dalla convenzione con la società Cattolica di assicurazione che ci ha generosamente concesso il supporto della divisione “Cattolica per i giovani”.
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L’inaugurazione del nuovo anno accademico riveste per noi un particolare significato perché essa coincide con la nuova destinazione della Provianda a fini di didattica e di ricerca in campo economico, finanziario e aziendale. Non appaia dunque improprio richiamare in questa occasione le vicende che hanno condotto alla riconversione per finalità eminentemente pacifiche di un edificio progettato per scopi indirettamente militari. Vicende che mi appaiono oggi – in una situazione storicamente tanto difficile e complessa – altamente simboliche.
Veronetta: da “città dei militari” a città della cultura
Centocinquanta anni or sono, nel periodo compreso tra il 1863 e il 1865, veniva eretto dall’Amministrazione militare asburgica l’ultimo grande edificio costruito a Verona, di cui era parte lo stabile nel quale ci troviamo. Si tratta della Provianda di Santa Marta, progettata per ricevere granaglie e trasformarle giornalmente in oltre 50 mila razioni di pane e venti quintali di gallette biscottate.
Sulla base delle linee strategiche elaborate dalla General Genie Direction di Vienna, si era deciso di risolvere il soddisfacimento del fabbisogno alimentare dei soldati organizzando una complessa attività logistica che si avvaleva, per il trasporto su grande distanza, del mezzo più moderno che la tecnologia di allora rendeva disponibile – la strada ferrata – e di un insieme di edifici industriali, il cui funzionamento era assicurato direttamente dall’amministrazione militare. Dati i rilevanti costi di un simile programma, inizialmente venne deciso di verificarne la funzionalità costruendo due prime basi sperimentali rispetto alle sette basi logistiche in cui si articolava l’esercito imperiale: si trattava di Komorn (Slovacchia) e di Verona. Nel progetto veronese confluiscono e si integrano distinte competenze artistiche e tecniche: architettoniche, strutturali, funzionali e impiantistiche.
La modernità della soluzione al problema del vettovagliamento emerge dal confronto con altre soluzioni del tempo: basti pensare alla soluzione adottata dallo stesso esercito asburgico condotto dal Wallenstein, in base alla quale ogni soldato doveva provvedere direttamente alla propria sussistenza anche attraverso depredazioni, requisizioni e razzie, in tal modo conducendo una guerra parallela a danno dei contadini e della proprietà privata. Da un punto di vista tecnologico, l’edificio di maggiore interesse è il silos, la cui costruzione si fondava sulle nuove tecniche per la conservazione delle granaglie, caratterizzate dall’isolamento ermetico del grano. Il buon esito di tale tecnologia era stato precedentemente verificato, sempre qui a Verona, nel silos ricavato nell’ex convento quattrocentesco di Santa Caterina da Siena, ancora visibile in via Cantarane. Altro segno di modernità è rappresentato dalla soluzione innovativa rispetto al passato, relativa all’assetto planimetrico del corpo centrale della Santa Marta, che a breve sarà inaugurato, a blocco chiuso con cavedio interno. Tale assetto caratterizza l’edificazione urbana intensiva dell’epoca[1].
La prima fornitura di guerra del panificio riguarda l’armata di 75 mila uomini dispiegati sul campo della battaglia di Custoza (24 giugno 1866), poco prima della perdita del Lombardo-Veneto. Con l’unificazione d’Italia la Provianda non perse né ruolo, né importanza, tanto da essere indicata come il quarto panificio militare della nazione (1877).
Il panificio militare restò in funzione fino al 30 giugno 1957. Successivamente i locali adibiti a forni e alla confezione del pane furono affittati a privati, mentre il compendio sino al 1995 mantenne la funzione di magazzino di vestiario, equipaggiamento e viveri, dal 1951 denominato “Centro Raccolta Collaudi e Smistamento”, con compiti di acquisizione e verifica qualitativa delle dotazioni dell’Esercito italiano.
Questo Ateneo, in larga misura con propri mezzi finanziari, ha disposto il restauro e la riconversione della Provianda a sede universitaria. Il progetto architettonico è stato affidato all’arch. Massimo Carmassi, mentre la progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva è stata affidata all’Istituto universitario di architettura di Venezia (Iuav Studi e Progetti, ISP s.r.l.) con il coordinamento scientifico del prof. Marino Folin. Come sottolineano gli architetti Mario Spinelli e Maria Rosaria Pastore nel capitolo che descrive la logica sottostante all’intervento edilizio nel libro da noi commissionato sulla Santa Marta, si è trattato di un recupero e non di un rifacimento o una ristrutturazione: interventi minimi, anche se tecnicamente complessi ed esteticamente raffinati, concordati con la Soprintendenza, per non coprire o cancellare l’esistente, operando per sottrazione, per sovrapposizione di vetri che evidenziano la condizione del manufatto e della sua luce. L’intervento presenta, fra l’altro, importanti soluzioni innovative volte alla tutela dell’ambiente. Tra tutte, va ricordato il rilevante investimento effettuato per disporre di un sistema di condizionamento – sia estivo, sia invernale – che utilizza la geotermia: si tratta di un complesso di 120 sonde verticali per la profondità massima di 100 metri e di circa 15 chilometri di tubazioni sotterranee che consentono di sfruttare la costanza della temperatura dell’acqua del sottosuolo, senza peraltro fare utilizzo diretto dell’acqua di falda. Si stima che il sistema “geotermico” possa essere in grado di coprire la metà del fabbisogno di punta e la gran parte del fabbisogno energetico totale. Il complesso ospiterà i due dipartimenti di economia, gli addetti ai servizi didattici, numerose aule di piccola e media dimensione. E’ dotato di una biblioteca che raccoglie oltre 200 mila volumi e di sale di lettura con 320 posti e 32 postazioni per la ricerca su risorse elettroniche.
Ora doverosamente e con profondo sentimento di riconoscenza ho il piacere di ricordare i numerosi soggetti, istituzionali e non, cui siamo legati da un debito di gratitudine. Prima di tutti l’attuale Presidente della Repubblica che, nell’anno 2001, nel ruolo di Ministro della difesa, ha autorizzato la cessione dell’edificio dal Demanio militare al Comune di Verona a suo tempo richiesta dal Primo cittadino. La Fondazione Cariverona, che ha messo a disposizione del Comune il finanziamento necessario per l’acquisizione dell’edificio e ha erogato all’ateneo un contributo finalizzato al recupero del Silos di Ponente. L’Amministrazione comunale, che nel 2004 ha concesso all’Università il comodato d’uso per 99 anni. Il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca che, in base a un accordo di programma stipulato nel 2001, ha cofinanziato una parte del recupero della Provianda. La Signora Miriam Loro Cherubini, che generosamente ha donato una considerevole somma di denaro che ha contribuito alla ristrutturazione del Silos di Ponente, in uso già dall’anno accademico 2009-2010 quale struttura didattica. La Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici, sotto la cui supervisione è stato dapprima progettato e quindi eseguito l’intervento di recupero, nel nome di una costante e fattiva collaborazione. I rettori Elio Mosele e Alessandro Mazzucco, nonché gli Organi accademici che si sono succeduti, meritevoli di aver avviato il progetto che si è dipanato in un arco temporale lungo un decennio. L’Istituzione universitaria ha mostrato la grande capacità, in un frangente di rilevante contrazione delle risorse finanziarie, di portare a compimento progetti importanti, nonostante l’avvicendarsi di tre diversi rettori, dando così continuità a decisioni finalizzate al bene della comunità universitaria e, in questo caso, di tutta la cittadinanza. Un ringraziamento va inoltre al Personale tecnico e amministrativo dell’Ateneo.
L’intervento di recupero ha trasformato un luogo chiuso, fortificato e controllato, finalizzato al sostentamento in guerra, in un edificio utilizzato per fini pacifici, aperto all’incontro e allo scambio nel rispetto della libertà di studio e di movimento in questa zona storica di Veronetta che, con i suoi bastioni e le sue mura, è stata per anni preclusa – dapprima dagli austriaci, quindi dall’esercito italiano e infine anche dai militari statunitensi – ai cittadini, tanto da essere a molti di loro ignota. Ora, come auspico, diventerà un luogo famigliare del paesaggio culturale e sociale di Veronetta.
L’Europa politica: dai progressi dell’ultimo secolo alla situazione attuale
L’evoluzione della destinazione d’uso del fabbricato ha anche un grande valore simbolico e può essere vista come metafora dei progressi che hanno caratterizzato la recente storia europea. Quest’anno ricorre infatti il centenario dell’entrata in guerra dell’Italia nel primo conflitto mondiale: in un secolo, si è passati dalla dissoluzione degli Imperi alla costituzione di nuovi Stati, dai conflitti bellici che hanno coinvolto tragicamente gli Stati nazionali alla istituzione della Comunità e, infine, della Unione Europea. L’ambizioso progetto di unificazione politica, istituzionale, economica dell’Unione ha attraversato fasi alterne di progresso e di stasi in cui sempre è emerso, ed è tuttora presente, il rischio di una critica radicale e di politiche potenzialmente distruttive della stessa.
Il processo che ha portato a costruire l’Unione Europea, come ben sappiamo, ha avuto la sua origine fra le macerie e le devastazioni dei due conflitti mondiali, contrassegnato dalla volontà che nulla di simile dovesse ripetersi in futuro. Gli ideali espressi in tempi e con culture politiche diverse da Altiero Spinelli, Jean Monnet, Robert Schuman, Alcide de Gasperi, Konrad Adenauer e Paul-Henri Spaak hanno alimentato il progetto di edificare una casa comune europea fondata sul principio di sussidiarietà, rispettosa delle tradizioni e delle specificità locali, prospetticamente orientata a forme confederali.
Il quadro tuttavia oggi è cambiato. Gli anni più recenti si stanno caratterizzando per una forte spinta verso la prevalenza degli interessi e della sovranità degli Stati nazionali rispetto a quelli della elaborazione di politiche comuni. Questi interessi si esprimono sia negli organi istituzionali dell’Unione, sia nelle iniziative dei singoli Stati. Spesso ne conseguono decisioni deboli, ispirate a logiche emergenziali e di breve periodo, inidonee ad affrontare le terribili sfide che già sono in atto. Voglio ricordare in proposito le parole pronunciate dal Presidente Mattarella nel recente discorso all’Assemblea plenaria del Parlamento Europeo. Egli ha richiamato con grande enfasi alla necessità di “saper guardare lontano” e affermato che “vanno date soluzioni globali a problemi globali”.
La sovranità statale infatti è già di fatto e da tempo limitata ad opera di quel mondo globalizzato che Jürgen Habermas ha definito non a caso come “era post-statuale”, identificandone l’assetto politico in una “costellazione postnazionale”[2]. Non si tratta solo di problemi macropolitici e neanche del loro doversi confrontare con le dimensioni multinazionali assunte da alcuni colossi industriali e dei servizi nell’epoca presente. Si tratta, a mio giudizio, anche di un affievolimento delle coscienze individuali. Si ha oggi l’impressione che decenni di pace interna e di crescente benessere abbiano anestetizzato le coscienze individuali e abbiano instillato nelle generazioni più giovani, per le quali assai remoti sono i ricordi delle tragedie vissute dall’Europa, la falsa percezione che i risultati raggiunti possano essere permanenti. Che pace, benessere, libertà di pensiero, parità tra uomo e donna, disponibilità di fruire di servizi essenziali, quali la tutela della salute e l’istruzione, a prescindere dalle proprie condizioni economiche, facciano parte del panorama naturale che contraddistinguerebbe l’Europa dal resto del mondo. Si tratta invece del frutto di secoli di impegno politico e sociale. Ciò rende ancor più preoccupate il noto ed esecrabile il fenomeno della trasmissione – da parte di movimenti xenofobi e populisti, che trovano ampia eco nei nuovi mass media – di messaggi secondo i quali proprio l’Europa e l’euro, e non invece gli errori commessi per lo più dai singoli governi, sarebbero la causa di tutti i mali.
Anche durante la drammatica crisi economica e finanziaria dalla quale, con fatica ed esito ancora incerto, stiamo affrancandoci sono emersi egoismi nazionali. Per tutti valgano due esempi.
Il primo è relativo alle procedure e alle azioni intraprese per il salvataggio finanziario della Grecia. Hanno dominato le nazioni attualmente economicamente e finanziariamente più solide e l’applicazione nelle scelte macrofinanziarie di rigidi principi di rigore morale rispetto alle tradizionali strumentazioni idonee a minimizzare le conseguenze della crisi. Sta dominando la falsa dottrina che è stata definita della “casa in ordine”[3], secondo la quale tenere in ordine la casa nazionale sarebbe condizione necessaria e sufficiente perché ci sia un ordine internazionale. Invece di offrire assistenza temporanea a un paese in difficoltà finanziarie, si sono imposte le perdite potenziali sui titoli sovrani ai creditori privati, con la conseguenza di diffondere tra i risparmiatori la consapevolezza che anche il debito pubblico dei Paesi più industrializzati non è privo di rischi. Nei fatti, però, ci si è allontanati dai rigidi principi morali enunciati con fermezza e convinzione. Gli interventi iniziali hanno comportato l’acquisto di titoli del debito pubblico greco presenti nel portafoglio delle banche da parte della Banca Centrale Europea. Si è così limitata la decurtazione del valore dei titoli ai soli soggetti privati non bancari. Nell’individuare le ragioni di tale soluzione, l’ex governatore della banca centrale tedesca (Bundesbank) Karl Otto Pöhl ha affermato, in un intervista rilasciata al settimanale tedesco Spiegel nel 2010: “Si trattava di proteggere le banche tedesche, ma ancor più le banche francesi, dagli effetti di una decurtazione dei titoli greci da loro detenuti”[4]. La gestione della crisi non è quindi stata orientata all’obiettivo di minimizzare le conseguenze collettive, bensì allo scopo di minimizzare le conseguenze sugli istituti bancari degli stati attualmente dominanti. Come affermava Jean Monnet, c’è una differenza abissale tra negoziare e affrontare un problema comune[5].
Il secondo esempio riguarda la gestione dei profughi, lasciata per molti anni ai paesi di prima accoglienza, sulla base del trattato di Dublino. Trattato che ora, finalmente, per stessa ammissione dei Paesi che l’hanno voluto, viene giudicato inadeguato. Al di là delle aperture di principio sulla revisione del trattato, purtroppo si continua ad assistere alla dominanza delle azioni, tra loro incompatibili, dei singoli stati e al conseguente rischio della frammentazione dell’Europa attraverso l’erezione di nuovi muri. Ma il dramma dei flussi migratori mette in luce un fatto ancor più grave che sta a monte di tutto ciò, ovvero l’assenza dell’Europa nella gestione delle crisi politiche dei Paesi del Nordafrica e del Medio Oriente. Precisamente a questa mancanza di una politica estera dell’Unione Europea, e non dei singoli stati, fa oggi da riscontro la tragica esigenza, in “stato di emergenza”, di una strategia comune contro il fenomeno della violenza terrorista che, così duramente, ci sta colpendo.
Gli egoismi nazionali non trovano ostacolo a causa di alcune gravi imperfezioni nel disegno istituzionale. Su tutte, l’adozione del metodo intergovernativo nell’assunzione delle decisioni in cui, di fatto, è dominante il peso di un numero assai ristretto di Paesi. Come ha ricordato l’ex Cancelliere della Germania Helmut Schmidt il 19 ottobre del 2011, “Ci troviamo di fronte a una crisi della capacità di agire delle istituzioni politiche dell’Unione Europea. Questa evidente debolezza nell’agire costituisce una minaccia per il futuro dell’Europa ben più grave rispetto ai livelli eccessivi di debito di alcuni singoli Paesi europei”[6]. Ancor più severo è il giudizio espresso da Tommaso Padoa Schioppa nel suo ultimo saggio[7], nel quale definisce il Consiglio dei ministri dell’Unione Europea un “cartello di nazionalismi” che blocca l’Unione.
A questi difetti, aggiungiamo noi, se ne somma un altro di carattere finanziario, riassunto dal refrain sistematicamente ripetuto durante l’attuale crisi da alcuni Paesi del Nord: We don’t want a transfer union. Si insiste, cioè, nel voler escludere ogni forma di trasferimento di fondi pubblici da uno Stato all’altro. Ne consegue il rifiuto di dotarsi di un bilancio comunitario di adeguate dimensioni che finanzi alcuni servizi pubblici comunitari (appunto, difesa e infrastrutture) e possa agire anche come ammortizzatore degli eventuali squilibri economici.
I limiti imposti dall’attuale incompleto disegno istituzionale non sono insuperabili. Le soluzioni non sono incompatibili con il mantenimento delle identità culturali delle singole nazioni e con il rigore finanziario. Due esempi storici ben illustrano questa affermazione.
Sulla possibilità di adottare una politica estera comune e un comune servizio della difesa basti pensare all’esempio della Svizzera. Sulla possibilità di contemperare l’obbligo del pareggio di bilancio per i singoli stati con l’esistenza di ammortizzatori automatici delle crisi e con la possibilità di attenuare le differenze nelle condizioni economiche basta fare riferimento alla più grande economia ispirata ai principi democratici e all’economia di mercato, quella degli Stati Uniti d’America.
La Confederazione Elvetica trae le proprie origini sul finire del 1200 dall’esigenza di una comune difesa, a sua volta determinata dalla constatazione della impossibilità, per le singole comunità, di contrastare l’espansione asburgica. In Europa, un lungimirante progetto era stato proposto già nel 1954: si trattava della istituzione della Comunità Europea della Difesa, caduto per l’opposizione del Parlamento francese e da allora mai più promosso. Solo nel 1992 la dimensione della politica estera e della difesa comune è inclusa tra quelle proprie dell’allora Unione Europea. Come osserva Antonio Padoa-Schioppa, “I popoli che non sanno né vogliono provvedere da soli alla propria sicurezza rischiano prima o poi di perderla, e con essa anche la propria libertà”[8].
Sugli aspetti di finanza pubblica, va ricordato come, sul finire del Settecento, nello Stato federale americano la sequenza di riforme abbia visto dapprima l’unificazione dei debiti nazionali contratti in diversa misura per finanziare la guerra d’indipendenza attraverso l’istituzione di un debito federale; quindi l’istituzione di un bilancio federale; infine, solo 50 anni dopo, l’introduzione dell’obbligo del bilancio statale in pareggio e del divieto per lo Stato federale di salvare gli eventuali stati in condizioni di dissesto finanziario. Ma a fronte del bilancio statale in pareggio il bilancio federale svolge il fondamentale ruolo di assicurare alcuni servizi anche negli Stati che hanno un basso grado di sviluppo economico. Lo stato federale americano rappresenta, quindi, una vera e propria transfer union, concetto tanto criticato dai Paesi del Nordeuropa.
Se da un lato è rassicurante osservare come le esperienze storiche si dipanino in periodi a volte molto lunghi, dall’altro è viva la preoccupazione che, in assenza di progressi quantomeno negli aspetti economici e finanziari dell’integrazione, l’Unione Europea possa ritrovarsi nelle condizioni critiche, recentemente affrontate. Per fortuna, sino a ora, ogni crisi ha fatto avanzare il progetto di un passo, intraprendendo non ciò che si riteneva possibile, ma ciò che le crisi imponevano come necessario. Basti pensare alla recente creazione, ancorché incompleta, dell’unione bancaria, che fino a qualche anno fa veniva respinta a priori. Forse la grave minaccia terroristica che sta tragicamente attaccando l’Europa potrà far tornare di attualità il progetto di dotarsi di un comune sistema di difesa. L’accorato appello lanciato dopo gli attentati di Parigi dal presidente Hollande per un sostegno da parte di tutti i Paesi europei rappresenta un passo in questa direzione. Rimane il fatto che, per essere veramente comune, un sistema di difesa implica una politica comune, la quale se continua a far capo agli stati e non ad effettivi organi decisionali dell’Unione appare molto problematica. Tanto più se a dettare l’agenda è l’emergenza.
Perduta la spinta ideale, l’Europa è, e continuerà ad essere, ciò che si è di volta in volta deciso sulla base delle emergenze del momento. Ma una incompleta costruzione europea, plasmata dalle crisi, potrebbe anche morire nelle crisi.
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Non voglio concludere il mio discorso con toni troppo pessimistici e allarmanti, anche se so bene come il professor Prodi in molteplici occasioni ha manifestato la sua delusione e il suo scoramento per la involuzione delle politiche adottate nell’Unione.
Alcuni filosofi sostengono che la crisi è un’occasione per superare le contraddizioni in atto nel sistema e progredire verso il meglio. Sono decenni che all’Università formiamo i giovani cittadini dell’Europa, non solo attraverso l’importante esperienza dell’Erasmus e degli scambi internazionali, che pure sono preziosissimi, ma anche rendendoli partecipi di una cultura europea che sia consapevole della complessità dei processi storici, politici e istituzionali che l’hanno generata e delle sfide che ancora l’attendono. La principale sfida è ancora quella che l’Europa porta in se stessa e muove a se stessa: alla sua idea incompiuta di Unione, alla sua esigenza di superare gli egoismi degli Stati nazionali, alla sua necessità di concretarsi come un’effettiva realtà trans-statuale. Dal principio di una ‘democrazia conforme ai mercati’ all’auspicabile ideazione, se non attuazione, di una ‘democrazia europea postnazionale’ il passo è ancora lungo ma forse non utopico. Le rovine delle due guerre mondiali, l’implosione della vecchia Europa nel disastro hanno spinto molti di coloro hanno immaginato la nuova Europa a farlo con grande passione e intenso afflato etico. Occorre oggi ritrovare passione e spirito etico, ben consapevoli che nulla in questi tempi, e in generale nei tempi della storia, è naturale. Nessuno può o deve sottrarsi a questo imperativo e in particolare tutte le componenti che agiscono nell’Università. Il nostro compito è fra tutti forse il più delicato: non solo formare i giovani al meglio perché possano affrontare con una strumentazione adeguata il mondo del lavoro, della ricerca, della scienza nella competizione globale, ma in essa sviluppare il confronto tra idee, culture, diverse concezioni del mondo senza cedere i propri ideali o peggio rinnegare la propria storia.
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Invitando le giovani generazioni a impegnarsi in questo urgente lavoro di immaginazione, europei di un Europa ancora da venire ma che ha già un passato e abbisogna di un futuro, dichiaro aperto il trentatreesimo anno accademico (2015-2016).
Nicola Sartor
02.12.2015
Riferimenti bibliografici
[1] Si veda Lino Vittorio Bozzetto, “Lo stabilimento della provianda asburgica di Santa Marta”, in Valerio Terraroli (a cura di), Santa Marta. Dalla Provianda al Campus universitario, Università degli studi di Verona, Cierre edizioni, 2015.
[2] Jürgen Habermas, La costellazione postnazionale. Mercato globale, nazioni e democrazia, Feltrinelli, Milano 1999.
[3] Si veda Tommaso Padoa Schioppa, La veduta corta, Il Mulino, Bologna, 2009, pag. 90.
[4] Si veda Karl Otto Pöhl:“It was about protecting German banks, but especially the French banks, from debt write offs. On the day that the rescue package was agreed on , shares of French banks rose up to 24 percent. Looking at that, you can see what this was really about – namely, rescuing the banks and the rich Greeks”. Spiegel Online, 18 maggio 2010.
[5] La citazione è contenuta in Tommaso Padoa Schioppa, La veduta corta, op. cit., pag. 90.
[6] Citato in A. Orphanides, “Reconstructing Europe: beyond the politics of disintegration”, mimeo, M.I.T., dicembre 2014. Di seguito il testo originale di Schmidt:“What we have, in fact, is a crisis of the ability of the European Union’s political bodies to act. This glaring weakness of action is a much greater threat to the future of Europe than the excessive debt levels of individual euro area countries”.