Utilizzare i rifiuti organici per produrre plastica ecocompatibile. Questo l’obiettivo del progetto “Res Urbis – Resources from urban bio-waste”, al quale l’ateneo ha partecipato negli ultimi tre anni nell’ambito di Horizon 2020, programma quadro dell’Unione europea dedicato alla ricerca e l’innovazione. Del progetto, che ha coinvolto i dipartimenti di Biotecnologie, Economia aziendale e Scienze giuridiche dell’università, hanno parlato David Bolzonella, docente di Impianti Chimici, e Ivan Russo, docente di Economia e gestione delle imprese, sulle pagine del quotidiano L’Arena di venerdì 13 settembre.
“Abbiamo letto con interesse l’articolo apparso su L’Arena di martedì 10 settembre a firma di “Cangrande” dal titolo «Comuni e Studenti senza plastica: basterà?» In particolare, ci ha colpito la chiusura del pezzo, che condividiamo appieno, e che auspicava che tale sensibilità potesse arrivare anche al mondo produttivo. Sul punto ci permettiamo di condividere alcune riflessioni che derivano dai nostri recenti progetti di ricerca universitari in questo ambito.
Senza alcun dubbio la plastica è stata una delle più dirompenti invenzioni dell’uomo e sarebbe oggi impossibile immaginare il nostro mondo e i nostri modelli di consumo senza plastica; invenzione che parla anche italiano, sia per i meriti di Giulio Natta, premio Nobel per il polipropilene, sia per la capacità di molte nostre aziende di ritagliarsi spazi rilevanti sui mercati internazionali del settore. In Europa la produzione attuale di materiale plastico si attesta circa su 50 milioni di tonnellate per anno: la Germania produce circa li 25% di questo quantitativo, seguita dall’Italia con il 14%, mentre terza risulta la Francia con il 10% circa. La produzione mondiale raggiunge invece i 350 milioni di tonnellate per anno ma con una previsione per il 2050 di oltre 1 miliardo di tonnellate. Purtroppo, tale produzione su larga scala e il relativo smaltimento dei materiali plastici non sono a somma zero per l’ambiente in cui viviamo. Giova ricordare che le fasi di produzione e smaltimento arrivano, ai ritmi attuali, a rilasciare in atmosfera 1.8 miliardi di tonnellate di CO2 all’anno; in secondo luogo, si stima che ogni anno tra 4 e 12 milioni di tonnellate di plastica finiscano nei nostri mari sfuggendo alla filiera della gestione dei rifiuti. Un ultimo dato è utile richiamare per una completa rappresentazione dei fatti: in Europa solamente il 14% circa di questi materiali, a fine vita, è raccolto separatamente e riciclato in qualche forma mentre il resto viene disperso, smaltito in discarica o incenerito, generando ulteriori emissioni di CO2. Esistono delle alternative a questo scenario? E soprattutto, come si chiedeva Cangrande, basteranno le lodevoli iniziative di alcune aziende, enti e Università?
A fine 2018 la Commissione Europea ha lanciato un ambizioso progetto, la cosiddetta “European Plastic Strategy”, che definisce dettagliatamente il percorso lungo cui muoversi per individuare delle soluzioni a questo urgente tema. Citiamo tre esempi pratici, conseguenza di questa strategia: il bando di alcune plastiche monouso, la cresciuta rilevanza data all’eco-design dei prodotti per facilitarne il riciclo, ed infine il parziale spostamento della produzione di materiali plastici da polimeri vergini (a base fossile) verso plastiche generate da materiali riciclati, oltre alla produzione di bioplastiche biocompostabili o biodegradabili. Non si può trascurare, come ulteriore elemento, una sensibilità crescente da parte dell’opinione pubblica rispetto a questo tema. Con riferimento alle plastiche prodotte da materiali riciclati si sottolinea come oggi tale produzione sia inferiore al 10% del totale (oltre il 90% è ancora prodotto da polimeri vergini). Questo quadro di cambiamenti è certamente una sfida che preoccupa tante imprese e la sostenibilità nel tempo del loro modello di business. Ripensare tali modelli per recuperare risorse a sostegno di azioni concrete di economia circolare è una priorità presente nelle agende di molti Governi europei, compreso il nostro, almeno stante il discorso di insediamento del Governo Conte II.
Tuttavia, la sfida si dovrà allargare andando a massimizzare il riutilizzo di materiali plastici (in luogo dei polimeri vergini) ed ampliando l’attuale utilizzo di bioplastiche per shoppers o sacchetti per l’immondizia allargandosi a settori fondamentali quali l’agricoltura, il packaging (a cominciare da quello secondario) fino ai prodotti durevoli (pensiamo ad esempio al settore automotive, all’elettronica fino all’interior design). Nell’ottica di non mettere a rischio 4.000 posti di lavoro nel settore, ma, anzi, di creare nuove opportunità di business è prioritario riqualificare competenze e professionalità. Riposizionare e ripensare la supply chain della plastica rispetto ai mutamenti socio-economici e alle innovazioni tecnologiche in atto ci sembra prioritario. Per contro, rimanere immobili a difendere l’attuale potrebbe risultare fatale nel prossimo futuro premiando solo le imprese che avranno sviluppato modelli di business adeguati. La difesa dello status quo accentua i rischi di marginalizzazione e di allontanamento dalla frontiera anche di imprese in precedenza eccellenti. In questo caso le conseguenze saranno un depauperamento del tessuto industriale italiano, dell’occupazione e quindi una perdita di competitività per il Paese. Serve il coraggio di cambiare. David Bolzonella, docente di Impianti chimici del dipartimento di Biotecnologie; Ivan Russo, docente di Economia e gestione delle imprese, del dipartimento di Economia aziendale”.