In Italia sette persone su dieci ricadono in reati una volta uscite dal carcere. Un tasso di recidiva del 70% che si abbassa al 10% se i detenuti svolgono un’attività lavorativa durante il periodo di reclusione. Il lavoro e la salute in carcere sono stati i temi al centro del convegno promosso dalla Scuola di Medicina e chirurgia, tenutosi martedì 22 ottobre in aula magna De Sandre, del Policlinico di Borgo Roma. Sono intervenuti Camillo Smacchia, responsabile per la sanità penitenziaria all’Ulss 9, ed Elisa Vermiglio, medico legale. L’incontro rientrava nel calendario di Diffusioni.
Insieme alla possibilità di svolgere un lavoro durante il periodo di reclusione, anche l’accesso alle cure mediche costituisce parte integrante del processo di rieducazione e ricostruzione della dignità.
“Fino a qualche anno fa gli operatori penitenziari facevano capo al ministero della Giustizia, erano quindi militari laureati in medicina o infermieri”, ha spiegato Smacchia. “Dal 2008, con il decreto del Consiglio dei Ministri, l’assistenza medica ai detenuti è passata in capo alle aziende sanitarie locali, costituendo un punto di svolta per il riconoscimento effettivo del diritto alla salute dei detenuti”.
Durante l’incontro è stata presentata agli studenti la possibilità di intraprendere la professione medica all’interno delle strutture detentive.
“Lo studente pensa spesso che fare il medico sia percorrere le corsie di un reparto con il camice e fare vita ospedaliera”, ha puntualizzato Smacchia. “Esistono invece molte realtà territoriali, come i servizi per le dipendenze, le comunità terapeutiche e le carceri, nelle quali ci sono persone che hanno bisogno di cure e dove la medicina è chiamata a rispondere”.