Nel dicembre del 2010 l’Università di Verona conferiva solennemente la laurea honoris causa in Scienze dell’educazione a Liliana Segre dopo che, qualche mese prima, la sua testimonianza aveva tenuto attaccati alla sedia in silenzio perfetto un migliaio di studenti universitari e delle scuole superiori della nostra città.
La forza tranquilla di quell’anziana signora che con pacatezza, ma straordinaria efficacia, raccontava la sua esperienza delle leggi razziali in Italia e la sua infanzia ad Auschwitz catturava l’attenzione dei giovani. La storia di Liliana era quella di una signora borghese che per molti anni era stata soprattutto madre di famiglia e moglie dell’avvocato milanese Luciano Belli Paci, che aveva per quasi mezzo secolo archiviato l’esperienza terribile della deportazione e dello sterminio. Poi, a contatto con la seconda generazione, quella dei suoi nipoti, aveva incominciato a parlare e raccontare, sentendo l’esigenza di trasformare quei racconti in una testimonianza forte e complessa da portare all’esterno della famiglia, fra i giovani delle nuove generazioni che più delle generazioni precedenti avevano, secondo lei, bisogno di conoscere quei fatti e di non dare per scontato che dopo la shoah il mondo fosse definitivamente vaccinato contro l’orrore del razzismo. La sua era, consapevolmente, la testimonianza di una sopravvissuta.
Oggi qualcuno, forse, imputa a quella signora proprio l’essere una sopravvissuta in grado di continuare, sulla soglia dei novant’anni, a battersi contro ogni forma di intolleranza e razzismo. Nominata senatrice a vita dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, Liliana Segre ha infatti saputo sfruttare anche i banchi del Senato per condurre la sua battaglia. Sempre ferma e pacata. La sua proposta di costituire una commissione parlamentare per combattere l’odio e il razzismo è stata approvata, purtroppo, con l’astensione della destra che l’ha qualificata come iniziativa “di tipo sovietico”. Sulla condanna dell’antisemitismo, almeno formalmente, pare che nessuno abbia dubbi, ma su “decidere che cos’è il razzismo” molti pare abbiano grossi dubbi, a partire da chi oggi afferma, senza vergogna, una forma di suprematismo (italiano, occidentale, cristiano o bianco che sia) non razziale, ma culturale, evocando la categoria di “razzismo dello spirito” cara al filosofo di destra Julius Evola. Se la prefettura di Milano è stata costretta a chiedere la scorta per Liliana Segre non è certo per un eccesso di zelo dei funzionari milanesi, ma certamente per la coscienza che un razzismo strisciante e diffuso sia sempre più presente nel nostro paese. Minoritario, certo, ma da qualche tempo non più contrastato e stigmatizzato come necessario.
Quello che un tempo era un “discorso da bar”, ora lo si dice in pubblico, in un crescendo autoalimentato di disprezzo e violenza verbale. L’eccesso, il tono sopra le righe, l’insulto e la parolaccia, la violenza verbale dominano ormai i social network e le televisioni, non solo in Italia. Segnano, purtroppo, anche il discorso pubblico di politici e uomini di Stato in tutto il mondo. È giusto, quindi, che la voce ferma e pacata della senatrice Segre si faccia sentire per porre un argine ad una degenerazione altrimenti inarrestabile. I cori razzisti rivolti ad un calciatore italiano dalla pelle scura, i ripetuti incendi di una libreria indipendente romana, le azioni squadristiche nei confronti dei rom, gli episodi di omofobia o di disprezzo per il diverso, seppur minoritari, sono comunque preoccupanti e segnano una grave perdita della coscienza civile e delle conoscenza storica nel nostro paese.
Gian Paolo Romagnani