Romosozumab, il nuovo farmaco per il trattamento dell’osteoporosi sviluppato da Ucb in collaborazione con Amgen, ha ottenuto la rimborsabilità da parte dell’Aifa,Agenzia italiana del farmaco. Se ne è parlato durante la conferenza stampa tenutasi a Milano, il 14 novembre scorso. Tra i relatori Maurizio Rossini, docente di Reumatologia all’università di Verona e direttore dell’Unità operativa di Reumatologia dell’Azienda ospedaliera universitaria integrata scaligera. Rossini ha spiegato il meccanismo d’azione del farmaco che rappresenta un’importante novità nel trattamento dell’osteoporosi nelle donne in post-menopausa e ad alto rischio di frattura.
Con il progressivo invecchiamento della popolazione italiana, il compito di preservare l’indipendenza e gli stili di vita attivi della popolazione si è trasformata in una sfida che la ricerca, l’innovazione, le iniziative sociali e la politica sanitaria possono aiutare ad affrontare. Ad oggi, i farmaci utilizzati per curare l’osteoporosi sono principalmente due: quelli che stimolano gli osteoblasti, detti anche “anabolici” e quelli che riducono l’attività delle cellule che rimuovono l’osso, conosciuti come “anti riassorbitivi”.
“In questo panorama – ha affermato il professor Rossini – romosozumab costituisce una novità assoluta. E’, infatti, un anticorpo che va a bloccare l’attività della sclerostina, proteina prodotta dall’organismo, che inibisce l’attività degli osteoblasti e che nello stesso tempo stimola gli osteoclasti. I risultati del suo impiego sono molto positivi: in un anno riesce ad incrementare la massa ossea quanto gli altri attuali farmaci riescono a fare solo dopo almeno 5 anni: per questo lo chiamano “bone builder”. Gli studi registrativi hanno dimostrato che con un solo anno di trattamento è possibile ridurre il rischio di fratture vertebrali da fragilità del 70%, il doppio di quello che riesce a fare ad esempio l’alendronato, attualmente considerato il trattamento di riferimento principale. La rapidità d’effetto rende questa terapia molto attraente, anche in prima linea, in particolare per i pazienti a elevato rischio di frattura, con forme più gravi di osteoporosi o con un rischio imminente di rifratturarsi, come i pazienti incorsi in una recente frattura da fragilità.”
“Anche per romosozumab – ha proseguito Rossini – come per teriparatide (un altro farmaco anabolico), vi sono dei limiti temporali per l’impiego, oltre i quali non vi sono sostanziali benefici. Per ottimizzare i quali una possibilità è la terapia sequenziale: una strategia terapeutica che prevede, ad esempio, un anno con romosozumab, seguito da un trattamento con un inibitore delle attività degli osteoclasti, come i difosfonati o denosumab. In questo modo è possibile mantenere o incrementare il guadagno ottenuto: con l’approccio sequenziale, ad esempio, romosozumab-denosumab in due anni sarà possibile ottenere risultati che attualmente ne richiederebbero sette”.