Un gruppo di lavoro multidisciplinare, composto da 22 esperti di undici associazioni scientifiche europee, ha unito le forze per definire le raccomandazioni per un uso efficace e personalizzato dei biomarcatori per la diagnosi della malattia di Alzheimer.
L’obiettivo è mettere al centro delle considerazioni diagnostiche dei medici il paziente, anziché la malattia o un test, e ciò costituisce una svolta negli approcci attualmente applicati. Il consensus vede tra i suoi esperti europei Francesca Benedetta Pizzini, docente dell’università di Verona e neuroradiologa nell’Istituto di Radiologia dell’Azienda ospedaliera scaligera. Il lavoro è stato pubblicato sulla rivista The Lancet Neurology.
L’Alzheimer è la forma di demenza più comune nelle persone anziane, sebbene possa colpire anche individui più giovani. Le caratteristiche della malattia di Alzheimer comprendono la formazione di placche di proteina beta-amiloide e la degenerazione neurofibrillare nel cervello, con conseguente morte progressiva delle cellule cerebrali. Con il passare del tempo la malattia progredisce da una lieve debolezza a una compromissione delle funzioni cognitive, della memoria e della capacità di svolgere le attività quotidiane. Questi sintomi sono facilmente confondibili con quelli di altri disturbi neurocognitivi.
Secondo i dati del Ministero della salute, attualmente il numero di persone colpite dal morbo di Alzheimer o da un’altra forma di demenza è stimato in oltre 1 milione, di cui 600mila con demenza di Alzheimer, e circa 3 milioni sono le persone coinvolte in modo diretto o indiretto nella loro assistenza. Secondo i dati del Global Action Plan 2017-2025 dell’OMS, a livello mondiale, si assisterà ad un incremento progressivo del numero di persone affette da demenza che raddoppierà nel 2050.
Negli Stati Uniti il primo farmaco anti-amiloide è stato approvato dalla Food and Drug Administration (FDA) nel 2021, seguito da un secondo nel 2023. Questi farmaci saranno introdotti in Europa nel 2024. L’arrivo sul mercato dei primi farmaci per forme specifiche di Alzheimer richiederà ora l’esistenza di un percorso diagnostico consensuale, preciso e di facile applicazione. Infatti, questi costosi trattamenti modificanti la malattia potranno essere prescritti solo a fronte di diagnosi sempre più accurate.
Un percorso diagnostico individualizzato. Esperti di undici associazioni e organizzazioni scientifiche europee e un’associazione di difesa dei pazienti (Alzheimer Europe) hanno collaborato per definire un percorso diagnostico incentrato su ogni singolo caso, che consenta di individuare gli esami adeguati sulla base del quadro sintomatico. Questo percorso diagnostico è stato sviluppato sulla base della letteratura scientifica e dell’esperienza pratica degli specialisti. “Dopo aver esaminato i disturbi dell’individuo, aver eseguito test di memoria e una risonanza magnetica cerebrale”, spiega Francesca Benedetta Pizzini, “lo specialista può ora avvalersi di queste raccomandazioni per classificare il caso in uno degli undici fenotipi definiti, quindi ricercare i biomarcatori utilizzando i test raccomandati dagli esperti internazionali, ovvero puntura lombare, PET amiloide, PET glucosio, SPECT ioflupane, SPECT MIBG e PET tau”.
Superare l’approccio biomarcatore-centrico. L’obiettivo del percorso diagnostico è quello di superare gli attuali limiti delle raccomandazioni e delle linee guida relative alla diagnosi della malattia di Alzheimer. Queste si concentrano principalmente sulla malattia stessa o sui biomarcatori, piuttosto che sulla persona affetta e, sebbene siano state sviluppate per aiutare i medici a utilizzare i test diagnostici corretti, rivelano delle carenze quando vengono applicate nella pratica clinica. Infatti, la maggior parte di queste raccomandazioni non tiene conto delle numerose opzioni diagnostiche disponibili o dell’esistenza di diversi test che possono essere eseguiti contemporaneamente o in sequenza. Inoltre, quelle che ne tengono conto, spesso riflettono solo l’opinione di gruppi di esperti non rappresentativi di gruppi societari scientifici.
Di conseguenza, nella pratica clinica la scelta del biomarcatore è spesso influenzata più da considerazioni organizzative e logistiche che da fattori clinici.
Metodo consensuale. Per raggiungere questo consenso, i 22 esperti hanno utilizzato l’approccio partecipativo Delphi per confrontare la differenza di efficacia di un test rispetto a un altro in varie situazioni. Questo approccio consiste nel misurare l’opinione degli specialisti sulle caratteristiche studiate, al fine di mantenere solo le opinioni che raggiungono un consenso superiore al 70% e quindi considerate altamente probabili.
I prossimi passi. Questa unione di competenze ha permesso di stabilire uno standard di riferimento che sarà utile a tutti i medici in Europa. Ora spetterà ai servizi nazionali, ai fornitori di assistenza sanitaria, ai funzionari medici e alle compagnie di assicurazione implementarlo in ogni Paese. “Per quanto riguarda lo studio, il prossimo passo sarà quello di integrare i biomarcatori ematici nell’albero decisionale” anticipa la professoressa Pizzini. Questi sono attualmente disponibili solo nell’ambito della ricerca e sono in fase di approvazione per l’uso clinico. In futuro eviteranno fino al 70% di esami costosi e invasivi come PET e la puntura lombare, contribuendo a ridurre i costi e ad ampliare le diagnosi nella popolazione generale.
DOI: https://doi.org/10.1016/S1474-4422(24)00041-3
Elisa Innocenti