Il deficit di decarbossilasi degli L-aminoacidi aromatici (AADC) è una malattia genetica ultra-rara che colpisce il sistema nervoso centrale, compromettendo la produzione di neurotrasmettitori fondamentali come dopamina e serotonina. La sua diagnosi, complessa e spesso tardiva, ha a lungo limitato le possibilità di intervento precoce. Oggi, però, la crescente diffusione di test genetici avanzati e di programmi di screening neonatale sta aprendo nuove prospettive.
In questo contesto si inserisce il recente studio coordinato da Mariarita Bertoldi, docente di Biochimica del dipartimento di Neuroscienze, biomedicina e movimento, che ha analizzato le caratteristiche genetiche e cliniche di una sottopopolazione di pazienti affetti da forme lievi o moderate della malattia. Una ricerca che non solo amplia le conoscenze su questa patologia, ma pone anche le basi per strategie terapeutiche più mirate.
Abbiamo intervistato la professoressa Bertoldi per approfondire i risultati del suo studio e capire in che direzione si sta muovendo la ricerca su questa rara, ma sempre più riconoscibile, malattia metabolica.
Professoressa Bertoldi, partiamo dall’inizio: cos’è il deficit di decarbossilasi degli L-aminoacidi aromatici (Aadc)?
Il deficit di Aadc è una rara patologia neuro metabolica ereditaria che provoca una marcata riduzione dei neurotrasmettitori dopamina e serotonina. Questa carenza causa gravi disturbi motori e neuro-evolutivi fin dai primi mesi di vita. Purtroppo, nei casi più severi, la malattia ha avuto in passato esiti fatali nel corso del primo decennio di vita.
La sua recente ricerca ha evidenziato delle novità importanti: ci può spiegare?
Negli ultimi anni, grazie a una maggiore consapevolezza da parte della comunità scientifica, all’uso sempre più diffuso di test genetici avanzati – come il sequenziamento dell’esoma e del genoma – e all’introduzione di programmi di screening neonatale basati sul dosaggio del biomarcatore 3-O-metildopa (3-OMD), siamo riusciti a identificare molti più pazienti. Alcuni di questi presentano forme cliniche meno severe, che definiamo “lievi” o “moderate”.
Che caratteristiche hanno questi pazienti con forme meno gravi?
Parliamo di bambini che, pur essendo affetti dalla malattia, riescono a mantenere la posizione seduta, a camminare in modo autonomo in alcuni casi, e a utilizzare il linguaggio in maniera funzionale. La compromissione cognitiva è solo parziale. Attualmente, questi casi rappresentano circa il 12% dei pazienti diagnosticati, ma il numero è in crescita.
Perché è così importante riconoscere anche queste forme meno gravi?
Perché non dobbiamo sottovalutare l’impatto della carenza di serotonina, anche nei pazienti meno compromessi dal punto di vista motorio. La serotonina influenza umore, comportamento e capacità di affrontare le routine quotidiane. Il nostro studio si propone proprio di offrire una panoramica più completa di queste forme “minori”, per migliorare sia la diagnosi che l’approccio terapeutico.
Ci può raccontare qualcosa di più sullo studio che avete condotto?
Lo studio è stato di respiro internazionale e ha analizzato i genotipi di 348 pazienti con deficit di Aadc. Tra questi, 43 presentavano forme lievi o moderate: 17 con sintomi lievi e 26 con un quadro clinico moderato. Abbiamo utilizzato le linee guida Acmg per la classificazione delle varianti genetiche, ma siamo andati oltre, introducendo un punteggio strutturale tridimensionale (3D-score) basato su un modello dell’enzima Aadc, per stimare l’impatto funzionale delle mutazioni.
Cosa è emerso da questa analisi genetica?
Il 70% dei pazienti con fenotipo meno severo presentava un genotipo eterozigote composto, ovvero due mutazioni diverse sul gene Ddc. In questi casi, è ancora possibile la formazione di dimeri enzimatici parzialmente funzionali, capaci di garantire una minima attività enzimatica e prevenire le forme più gravi. Nei pazienti omozigoti, invece, se la mutazione è severa, l’enzima risulta inattivo, con un quadro clinico più pesante.
C’è una soglia di attività enzimatica utile a distinguere tra forme lievi e gravi?
Sì, ed è molto sottile. Abbiamo stimato che per i pazienti omozigoti è necessario almeno l’8% di attività enzimatica per evitare forme gravi. Nei casi di eterozigoti composti, invece, può bastare anche solo l’1%, purché una delle combinazioni di dimeri sia parzialmente attiva.
In che modo questi risultati possono avere un impatto sulla terapia?
Conoscere l’attività enzimatica residua permette di orientare meglio le decisioni terapeutiche. Per esempio, si potrebbe valutare l’estensione della terapia genica anche ai pazienti con forme moderate. Inoltre, lo screening neonatale potrebbe diventare uno strumento chiave per una diagnosi precoce e un intervento tempestivo.
In conclusione, quale pensa sia il valore principale di questo studio?
Ritengo che il nostro lavoro fornisca strumenti utili per distinguere in modo più preciso le forme lievi e moderate del deficit di Aadc. Questo può tradursi in diagnosi più accurate, migliori previsioni sull’evoluzione della malattia e terapie più personalizzate. Intervenire precocemente, con un approccio mirato, è essenziale per migliorare la qualità di vita di questi pazienti.
SM