Il Disegno di Legge della riforma universitaria prosegue il suo iter. In questo editoriale il rettore Alessandro Mazzucco ne analizza contenuti e quadro di riferimento.
Mercato e concorrenza da soli non sono riusciti a garantire il necessario rinnovamento ad un sistema che affonda le sue radici in una concezione carica di storia e di antichi privilegi. Una concezione oggi superata.
Il punto fondamentale della riforma è, infatti, rappresentato dalla sostituzione dell’autorità e del potere con la valutazione del merito individuale e collettivo.
Per scrivere il futuro dell’istituzione accademica servono nuove regole d’indirizzo ed un “patto nazionale per l’Università” che vede coprotagonisti governo e università stessa. Ed è necessaria una disponibilità ad aprirsi al nuovo, vincendo l’inerzia che spesso alberga tra gli italici confini.
L’Università è una tra le massime espressioni della società. Dopo secoli di storia, in questi tempi il suo ruolo – non solo in Italia – è oggetto di profonda riconsiderazione per la richiesta dei governanti di consentire un più vasto accesso della popolazione ai fabbisogni della New Economy, la crescente preoccupazione che la preparazione dei giovani verso il loro impegno civico e professionale sia inadeguata, il formidabile impatto di condizionamenti esterni, come quelli prodotti dalla information technology e dalla globalizzazione.
Ma il momento fondamentale che identifica il cambiamento della Università moderna è relativamente recente e discende dalla rapida transizione da una collocazione élitaria a quella di una Università impropriamente detta “di massa”, cioè aperta in linea di diritto a tutte le componenti sociali.
Tale mutazione è universale, ma tocca il nostro Paese con la consueta nota di inerzia, di conservazione che ne caratterizza i fenomeni.
La conseguenza più difficilmente prevedibile in questo contesto è quello della composizione del corpo studentesco. La popolazione giovanile che si presenta alle segreterie per le iscrizioni è estremamente composita per età, etnia, nazionalità, censo. La richiesta che viene avanzata all’Università non è soltanto di formazione, ma anche di una serie di servizi che va aumentando in ragione di un progressivo cambiamento della popolazione studentesca, più varia ed esigente che in passato.
Il risultato più immediato e macroscopico di questo cambiamento è quello dell’ elevato livello di competizione fra Atenei stimolato disordinatamente da male interpretate logiche di mercato. Si tratta di una competizione che si gioca sulla attrazione di studenti, sulla conquista di fondi di ricerca, sui finanziamenti, e, non da ultimo, sul prestigio delle classifiche che con i metodi e – di conseguenza – i risultati più eterogenei vengono somministrate a raffica al pubblico.
Mercato e competizione sono un buon motore per il cambiamento. Tuttavia, se non governati con consapevoli interventi di indirizzo da chi ha responsabilità di governo e quindi di scelte strategiche, rischiano di deformare le finalità della formazione superiore ed ampliare il distacco tra retorica e realtà.
La competizione è in qualche modo sempre esistita, come dimostrato dall’antica prassi della mobilità. Tuttavia, fino a pochissime decadi orsono, essa era statica, definita ed in tal senso non poneva problemi sostanziali per le Università, che potevano contare su quote stabili di iscrizioni in ragione di una popolazione studentesca omogenea, del consolidamento delle proprie aree di competenza e perfino della collocazione geografica.
Ora due fenomeni separati, ma entrambi conseguenti a vistosi eventi sociali, come la moltiplicazione di nuovi Atenei e il crollo dell’economia globale, hanno generato una concorrenza impossibile da risolvere senza interventi guidati. Le leggi di mercato da sole, in assenza di risorse sufficienti a sostenere una domanda non regolamentata, non consentono soluzioni capaci di garantire la qualità e quindi gli obiettivi propri della formazione superiore.
Tutti i governi sono profondamente consapevoli del ruolo primario delle attività universitarie per lo sviluppo economico ed il rinnovo generazionale. L’adozione di strumenti normativi non ha consentito fino ad oggi di raggiungere l’ obiettivo, principalmente perché le norme non sono state rispettate da parte di strutture rigidamente stabilizzate sulle loro tradizioni. Questa è in buona parte la ragione della attuale crisi del sistema.
E tuttavia, una radicale delegificazione e apertura a leggi di mercato, come sopra accennato, non appare garantire il percorso. L’approccio che viene considerato più efficace e garantista è quello di stendere regole di indirizzo per l’Università fondate sul principio di un maggior livello di concorrenza, gestito con una dose elevata di autonomia istituzionale, insieme a significativi livelli negoziati di accountability, intesa come responsabilità subordinata alla rendicontazione ed alla valutazione.
Non solo in Italia, ma negli USA, in Australia, in Cina, con connotazioni ovviamente diverse, questa sembra essere la strada condivisa: elaborazione di un “patto nazionale per l’Università”, seguito da accordi operativi adottati a livello di sede con la scelta di indirizzi e “mission “ istituzionali, sul raggiungimento dei quali si decide il conseguimento del risultato.
In sintesi, l’elemento di peso maggiore in questa nuova realtà è l’impatto collettivo del ruolo dell’Università nella società che rende indispensabile una responsabile presenza governativa.
Si tratta di una vera rivoluzione per un’Università che, fin dalla sua nascita, nel medioevo, si caratterizzò per due tratti caratteristici: autonomia e universalità. In base a questa logica essa assimilò la propria vita accademica a quella di una cittadella, la cui libertas academica dai poteri politici giungeva fino al privilegium fori rispetto all’autorità giudiziaria della società civile.
Secoli più tardi questa idea era ancora tanto viva che von Humboldt si fece promotore di un’Università ispirata al motto “Freiheit und Einsamkeit” (libertà e solitudine), termini che sottolineano la sua totale indipendenza ed il suo distacco dal flusso e riflusso delle contingenze sociali. Il prototipo dell’accademico di von Humboldt era rappresentato dalla “cattedra”, vero e proprio simbolo dell’individualismo del “Professore” ed ancor più del suo potere, elementi che diedero vita a quella tradizione di conservazione e propagazione del pensiero e della contiguità con i discepoli che ancor oggi conosciamo sotto il nome di “scuola”.
Questo istituto, nobile e prezioso nel passato, è ormai completamente al di fuori delle logiche odierne e degli indirizzi indicati dalla moderna società della conoscenza che valorizza il merito individuale senza riserve e senza patrimoni trasmessi lungo assi ereditari. E però ancor oggi si sente citare il “valore della scuola”, nel nome del quale intollerabili ingiustizie sono state compiute, in particolar modo in sede di reclutamento.
Un simile assetto in una società globalizzata ha perso ogni titolo di pregio ed è, all’opposto, elemento di corruzione del sistema, dal quale chi non è in qualche modo “iniziato” e non ha un “padrino” è escluso. Non è un’accusa all’Università degli anni 2000, ma è la constatazione di un costume che ha radici nel passato: già nell’Ottocento Francesco D’Ovidio (presidente dell’Accademia dei Lincei) e l’illustre giurista Pietro Cogliolo lamentavano accordi sommersi per la costituzione delle commissioni di concorso, tali e quali sono dipinti ai nostri giorni.
Si deve voltare pagina. In questi giorni è stato presentato al Parlamento un disegno di legge, elaborato dal Governo lungo un anno di gestazione, che affronta alle radici questi temi. E’ un coraggioso intervento riformatore di sistema che certamente susciterà apprezzamenti ma anche dubbi e reazioni. Queste mie riflessioni vorrebbero aiutare a dare un senso attuale ad un atto legislativo che potrebbe apparire autoritario e liberticida dell’antico privilegio dell’autonomia accademica se non fosse letto secondo la collocazione di contesto che ho cercato di analizzare. Alla luce di tale analisi esso dovrebbe, invece, apparire un intervento responsabile e doveroso per adattare il sistema universitario alle esigenze della società del terzo millennio, ben diverse da quelle che hanno originato le Università antiche.
Il punto fondamentale della riforma è, infatti, rappresentato dalla sostituzione dell’autorità e del potere con la valutazione del merito, individuale, ma anche collettivo. Da ciò discende l’allocazione diversificata di risorse pubbliche, sulla base della capacità degli Atenei di gestirle in modo efficace ed efficiente. Ciò impone che le amministrazioni formulino i propri bilanci e le proprie programmazioni in autonomia, ma all’interno di chiari indirizzi governativi. Queste azioni non sono familiari alle amministrazioni universitarie e richiedono decisionalità molto forti. Vi è perciò l’esigenza di riformare la governance universitaria, che deve garantire l’assenza di conflitti di interessi anche attraverso la apertura degli organi di governo a competenze esterne.
Un altro forte elemento di correzione è richiesto dalla composizione strutturale degli Atenei. La loro tradizionale organizzazione avveniva secondo la logica delle aree che corrispondevano al titolo di studio scelto dagli studenti che si realizzava nella concessione della facultas di fregiarsi del titolo e quindi di esercitare. Tale logica si è tradotta e consolidata in un assetto quasi obbligatorio degli Atenei in Facoltà. La naturale conseguenza di questo assetto è stato il pressochè esclusivo criterio di natura didattica nel reclutamento dei professori. Per di più, in tempi recenti, le Facoltà hanno articolato la loro composizione con una forte contaminazione disciplinare, perdendo in tal modo la storica identità di area, generando frammentazioni all’interno degli stessi settori che si sono tradotte in pesanti complicazioni e duplicazioni nella programmazione di risorse umane, logistiche, di attrezzature e laboratori di ricerca.
L’attuale Università si fonda sulla figura di uno scienziato ricercatore, la cui produzione scientifica e competenza viene messa a disposizione di altri attraverso l’insegnamento. Ne consegue che il reclutamento è primariamente ispirato da logiche di sviluppo di aree scientifiche piuttosto che dalla copertura di ruoli didattici necessari ad erogare insegnamenti decisi a priori.
Il ruolo dei Dipartimenti. La struttura che nelle intenzioni del legislatore fin dagli anni ‘60 avrebbe dovuto rappresentare in quest’ottica il nuovo nucleo delle strutture periferiche degli Atenei era il Dipartimento. I Dipartimenti, tuttavia, si costituirono solo dopo la legge 382 dell’80 seguendo logiche consociative e fallirono nella loro finalità di ricondurre ad un’omogeneità scientifica i ricercatori appartenenti alla stessa area o a settori affini, a prescindere dalla Facoltà di appartenenza. Essi sono rimasti strutture subordinate, sprovviste una propria capacità di autodeterminazione, all’infuori della gestione delle risorse di ricerca trasferite dall’amministrazione centrale o attraverso iniziative proprie. La conseguenza principale di tale situazione è la difficoltà di programmare lo sviluppo degli organici in relazione alle necessità scientifiche, in quanto anche le più importanti vengono subordinate a presunte esigenze meramente didattiche e a politiche di potere giocate all’ interno delle Facoltà, rappresentate per legge all’interno del Senato Accademico e divenute, di conseguenza, una sorta di corpi autonomi separati all’interno degli Atenei.
La riforma prevede sostanzialmente l’abolizione della facoltà o la loro riconversione in esclusiva sede di coordinamento didattico, riproponendo come elemento di riferimento un dipartimento scientificamente omogeneo, tale da meritare il mandato di organo cui deputare la programmazione dello sviluppo dell’area rappresentata attraverso il reclutamento.
E proprio questo costituisce uno dei più importanti atti riformatori del Disegno di Legge che propone come punto di forza operazioni di selezione pienamente rispettose non solo delle necessità delle diverse sedi, ma soprattutto del valore e del merito scientifico dei candidati.
La riforma include anche la dichiarazione di impegni di tipo etico, nella diffusa presunzione che l’elemento determinante della crisi del sistema universitario sia di indole etica. Indubbiamente tale criticità esiste, va prevenuta prima ancora che corretta, ma è per definizione legata al comportamento individuale. La più efficace prevenzione non sarà tanto la dichiarazione di impegno assunta, quanto l’introduzione di meccanismi decisionali a tutti i livelli sottoposti a rendicontazione e valutazione.
Molti altri sono gli elementi della riforma, per lo più di natura tecnica, che meritano attenzione.
Particolarmente rilevanti sono quelli che consentono garanzie delle modalità di spesa del finanziamento pubblico, ed è anche questa è una innovazione, giustamente voluta dal governo come elemento irrinunciabile per ottenere l’assegnazione dell’indispensabile impegno finanziario da parte del governo.
Evidentemente l’erogazione dei fondi necessari non è contenuta nel disegno di legge di riforma, ma ne è obbligatoria integrazione, attesa come atto assolutamente vitale per la realizzazione dell’intervento di miglioramento dell’Università, ma ancor prima per la sostenibilità della sua stessa sopravvivenza.
Questo è veramente un patto per l’Università: garanzia di buona amministrazione e di qualità dei risultati per trasformare gli stanziamenti di denaro pubblico in un vero e proprio investimento per il Paese.
Alessandro Mazzucco