E’ stato detto da numerosi osservatori – certamente non filogovernativi – che la riforma dell’Università è una riforma di cui l’Italia ha una necessità improrogabile. Come ogni provvedimento assunto da un parlamento così litigioso qual è quello italiano, il disegno di legge di cui si parla è stato costruito con una singolare convergenza di contributi che si è manifestata due anni fa all’avvio dell’iter con un consenso sostanzialmente totale, trasversale ed esteso alle più rappresentative componenti dell’Università e perfino dall’Accademia dei Lincei. Purtroppo è seguita una lunga, immotivata attesa, per ragioni che nulla avevano a che fare con i contenuti. Dopo l’approvazione in Senato, con un dibattito moderato e il consenso anche di componenti dell’opposizione, la frattura all’interno della maggioranza di governo ha trasformato la discussione alla Camera in un ring politico e mediatico in cui i contenuti della riforma sono stati più che altro un pretesto per misurare le forze in campo.
Quali sono i fondamentali elementi di innovazione che rendono questa legge un incontestabile, anche se parziale, miglioramento rispetto alla insostenibile situazioneattuale? Il recupero del merito attraverso la valutazione; la modifica del reclutamento che consenta di selezionare le forze migliori ed apra la strada senza discriminazioni a tutti i giovani meritevoli; la riforma dei meccanismi di governo che elimini i centri di potere e soprattutto la figura feudale dei cosiddetti “baroni”; la rendicontazione sia di natura produttiva che amministrativa; l’eliminazione della distribuzione a pioggia delle risorse in spregio ad ogni responsabilità di scelta e la diversificazione della remunerazione in ragione della produttività. Tutto ciò con l’obiettivo di recuperare il ruolo dell’Università italiana nel promuovere lo sviluppo culturale, scientifico, produttivo del Paese, per risollevarla dall’umiliante confronto odierno con quelle europee ed occidentali, con le quali non può competere a causa della mortificazione della ricerca ed il livellamento della qualità verso il basso.
Certamente il percorso di questo Disegno di legge è stato gravemente complicato dalla contemporanea – ma non direttamente collegata – restrizione delle risorse che, per voce unanime, qualora integralmente applicata, avrebbe definitivamente affossato alle radici il sistema. Sollecitato da ogni parte, il governo ha concordato un rifinanziamento consistente rispetto ai tagli già deliberati, tale da consentire di affrontare l’esercizio 2011 senza dover affrontare drammi. Ma esso non elimina un’assurda limitazione di mezzi che dovrà certamente essere riconsiderata se si vorrà mettere in condizioni il rinnovato e riqualificato sistema universitario di poter tradurre gli auspicabili investimenti nei frutti auspicati.
La riforma ha un impianto che rappresenta comunque una svolta profonda, dopo quattro decenni di esperienze negative. Le due più recenti tra queste sono state responsabili, da un lato, del dissesto finanziario di tanti Atenei irresponsabilmente amministrati all’insegna di una ottenuta autonomia in spregio di ogni obbligo di accountabilty, dall’altro, da una incontrollata liberalizzazione dell’offerta formativa, manifestamente finalizzata a realizzare le aspirazioni dei docenti piuttosto che il reale bisogno dei giovani per consentire loro di indirizzarsi al lavoro nel migliore dei modi.
Le debolezze che si possono cogliere nella presente manovra sono imputabili alla mancanza di tutto il coraggio che sarebbe stato richiesto, ma anche di un contesto culturale e politico che consenta a questo Paese di fare le vere riforme di cui ha bisogno. Sono debolezze che certamente non raffigurano un eccesso, ma piuttosto un’insufficiente incisività di questa legge che non potrà che essere considerata un primo passo verso la modernizzazione della Università italiana. Una modernizzazione tale da poterla rimettere in corsa con le migliori realtà internazionali, cosa che sarà resa possibile solo dalla garanzia di quelle risorse che tutti i Ministri del Tesoro degli ultimi Governi hanno dichiarato di volere subordinare all’avvenuta riforma del sistema universitario.
E’ fortemente auspicabile che questo primo passo venga compiuto per consentire di avviare finalmente un processo che richiederà altri interventi, quali:
1. La revisione del meccanismo di finanziamento delle Università, fino ad oggi fondato pressoché esclusivamente sulla quantità di studenti e su una ipotesi di costo medio dello studente del tutto priva di fondamento. Da qui si è ovviamente innescata la corsa alla moltiplicazione delle lauree. Il velleitarismo campanilista di molte province alla ricerca della propria riqualificazione, ha dato, inoltre, vita alla moltiplicazione di sedi decentrate di corsi di laurea in molti casi carenti della necessaria dotazione di requisiti fondamentali per garantire una formazione di eccellenza. Questa è stata la premessa per la dequalificazione degli studi universitari che, dopo “l’Università sotto casa” ha prodotto ” l’Università telematica”. E’ indispensabile mantenere in vita solo Università in grado di garantire percorsi formativi efficaci e attività di ricerca di livello internazionale.
2. La consapevolezza che il diritto allo studio deve essere realizzato, non solo attraverso il supporto finanziario agli studenti meritevoli che non dispongono della capacità economica per affrontare il costo degli studi. Ancor di più è necessario garantirlo in modo globale come accesso non solo alle lezioni o alle esercitazioni, ma all’interezza dei servizi – alloggio, vitto, spazi, attività sportive e ricreative – che consentano allo studente di dedicare l’interezza del proprio tempo e del proprio interesse alla vita curriculare ed extracurriculare dell’Università. L’edilizia universitaria non è una opzione, ma un fondamento della qualità della formazione universitaria.
3. Lo sforzo di comprendere – e ciò è vero su tutti fronti – che non ha senso dividere la ricerca di base dalle applicazioni, come se la prima fosse inutile e le seconde ne fossero una varietà meno nobile. Questo non è vero e, soprattutto, continuando su questa linea di frattura, è evidente che la ricerca di base verrà progressivamente privata di risorse, con ciò togliendo la linfa vitale anche alla ricerca applicata. Quando si condividerà che l’una e l’altra sono fasi diverse della crescita di conoscenza del singolo e della società finalmente si investiranno in ricerca risorse pubbliche e private e solo così ci si potrà attendere di veder competere nuovamente le Università italiane insieme con quelle degli altri Paesi occidentali, che non hanno migliori ricercatori, ma ne hanno di più perché selezionano i migliori, li finanziano e li mettono in condizioni di lavorare.
4. Infine, la pletorica normativa che si è andata producendo in materia di Università deve essere resa essenziale, ridotta ai pochi principi fondamentali. Questo è l’unico modo di restituire alle singole Università la vera autonomia di gestire le proprie risorse al meglio e sviluppare iniziative innovative che oggi sono impedite da una assurda proliferazione di vincoli. Un modello dirigistico ex ante non introduce garanzia di qualità, ma solo burocrazia che induce alla elusione delle regole.
Tutto ciò è necessario perché il Paese che ha dato vita ad uno dei più qualificati sistemi universitari del mondo occidentale riconduca tra le proprie priorità strategiche la ricerca, la formazione superiore, il capitale intellettuale che dell’Università sono il prodotto più nobile e autentico.