Si è tenuta sabato 14 aprile, nel dipartimento di Biotencologie, l’assemblea dell’Associazione nazionale biotecnologi italiani (Anbi), nata nel 2001 per valorizzare quella che era una professione emergente e che ora conta circa 20.000 laureati nel nostro paese.
Nel 1993 l’ateneo di Verona è stato il primo in Italia a istituire un corso di studio in Biotecnologie Agro-Industriali. Negli anni successivi sono nati altri corsi di laurea in Biotecnologie, ma Verona resta ancora oggi un punto di riferimento importante, soprattutto per la ricerca in campo vegetale che qui si svolge.
“Oggi si sta aprendo – sottolinea Paola Dominici, direttrice del dipartimento di Biotecnologie – la grande sfida della chimica verde nella quale le biotecnologie giocheranno un ruolo di primo piano e anche noi come università, sul fronte formativo, dobbiamo preparare professionisti capaci di intercettare i bisogni in termini di competenze del settore”.
“Nell’immaginario collettivo – spiega Davide Ederle, presidente Anbi- il biotecnologo è il classico camice bianco con la pipetta in mano. I dati che emergono dalle nostre rilevazioni, raccontano però un’altra storia. Il biotecnologo è sì protagonista nei laboratori, ma la maggior parte ha posato la pipetta per occuparsi, a vario titolo, di innovazione. Che poi è, di fatto, il motivo per cui questa figura professionale è nata: uscire dal laboratorio per trasformare il sapere in un saper fare”.
Dai dati presentati emerge infatti che oltre la metà non si riconosce nemmeno più all’interno delle definizioni che contraddistinguono i vari corsi di laurea (biotecnologo agrario, industriale, medico, veterinario, farmaceutico) e così si trovano biotecnologi che si occupano di progettazione europea, gestione della qualità, proprietà intellettuale, normativa e processi autorizzativi, consulenza tecnica, marketing, gestione d’impresa, ma anche imprenditori, manager, comunicatori, giornalisti, insegnanti. Non solo dunque ricercatori e professori universitari, che pur non mancano, ma anche tutte quelle professioni che consentono ad un risultato scientifico di cambiarci la vita diventando prodotti e servizi.
“Il dato è molto chiaro, le imprese hanno sì bisogno di ricercatori, ma ancor di più persone con competenze capaci di trasformare la ricerca in innovazione. Questo è un messaggio importante – conclude Ederle – in particolare per i ragazzi che da grandi vogliono intraprendere questa carriera, o quegli studenti che hanno già iniziato il percorso per diventare biotecnologi. Il loro futuro, molto probabilmente, non sarà in un laboratorio ed è bene che siano fin da subito consapevoli e pronti a cogliere la sfida di un mondo del lavoro che chiederà loro molto di più che impugnare una pipetta”.