In occasione del concorso fotografico promosso dall’Università, in collaborazione con il Circolo dei lettori di Verona e Medici senza frontiere, abbiamo intervistato una delle giovani partecipanti Enrica Zanoli, studentessa al primo anno in Scienze della Comunicazione.
Il tema assegnato intendeva ricordare il muro di Berlino e la sua caduta attraverso la rappresentazione di qualsiasi soggetto che evocasse barriere, divisioni, ostacoli, visibili o invisibili. Come ha interpretato la consegna?
Mi sono concentrata sul termine “barriere”, in particolar modo su quelle invisibili, e ho cercato di riflettere su ciò che per me lo potesse meglio rappresentare. Il mio intento era quello di raccontare, tramite un singolo scatto, il tratto comune a tutti gli individui della società moderna: il senso di solitudine e la consapevolezza che l’essere un unicum comporta, sia in termini di specialità ma anche di isolamento appunto. Non ho voluto concentrarmi sulla sfera personale, né sull’utilizzo di un muro come immagine di barriera, che ritenevo un po’ scontato.
A cosa si è ispirata per la foto?
La foto che ho proposto vede rappresentata una figura umana, probabilmente un giovane uomo, seduta su una panchina a capo chino. Mi trovavo a Parigi e camminavo sul lungo Senna, quando sono rimasta colpita dal quadro che mi si presentava dall’altra parte del fiume: una piccola cella naturale nella quale la figura, pur non consapevole, si trovava imprigionata. Lo spazio di costrizione è delimitato dai tronchi di due alberi e il senso di prigionia è raddoppiato dalla presenza delle ombre scure dei due tronchi riflesse sul muro. Il resto del mondo, rappresentato dal cestino che per sua stessa elezione raccoglie i rifiuti di tanti estranei, resta al di fuori. Non interessa. Non ci riguarda.
Cosa ha significato per lei partecipare ad un concorso promosso dalla sua università?
Si è trattata di una grande opportunità per me che mi sto affacciando proprio adesso al complesso mondo della fotografia. Parlo di complessità non tanto in termini di tecniche da acquisire, ma in quanto questa particolare forma d’arte richiede di sviluppare un modo tutto personale di guardare il mondo. L’obiettivo della macchina fotografica diventa il secondo paio d’occhi di cui fare buon uso. Il concorso è stata una bella occasione di confronto ma soprattutto di riflessione su un tema, quello delle barriere, su cui ognuno di noi dovrebbe avere qualcosa da dire. L’università ha dato a me, e a quanti hanno partecipato, questa possibilità. Inoltre l’aver preso parte al concorso rientra nel mio intento di “vivere” l’esperienza universitaria a 360° gradi, cogliendo quante più occasioni possano integrare la mia formazione, intesa non solo nel senso didattico del termine.
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