Pubblicato il 10 aprile sulla prestigiosa rivista scientifica Nature plants una nuova ricerca che chiarisce il meccanismo biofisico che regola le primissime fasi della fotosintesi nelle piante. Lo studio è stato condotto dal team di ricerca composto da Roberto Bassi, Luca Dall’Osto, Stefano Cazzaniga e Mauro Bressan del laboratorio di Fotosintesi e Bioenergie del dipartimento di Biotecnologie dell’università di Verona, in collaborazione con i gruppi di ricerca diretti da Graham Fleming dell'università della California (UC Berkeley) e Donatas Zigmantas dell’università svedese di Lund, pionieri nell’uso di sorgenti laser per la misura di eventi ultrarapidi. Nel corso del lavoro, durato tre anni, i ricercatori hanno studiato soluzioni per aumentare l’efficienza con cui le piante raccolgono ed utilizzano l’energia. La scoperta apre prospettive applicative interessanti: potrà essere diretta all’aumento della resa delle colture agricole per la produzione di cibo e biocombustibili.
La ricerca. Il team di ricerca scaligero da tempo studia la fotosintesi, il processo che converte la luce del sole in energia chimica, con l’obiettivo di migliorare la produzione vegetale. In questo nuovo studio hanno analizzato il processo con il quale le piante si proteggono dall’eccesso di luce. Alterando l'espressione di tre geni bersaglio e seguendo i processi ultrarapidi che mediano la raccolta dell’energia luminosa, sono riusciti ad “osservare” i meccanismi che regolano le primissime fasi della fotosintesi nelle piante, e a definirne le basi molecolari. La ricerca si è focalizzata sui primi eventi di raccolta dell’energia luminosa e, in particolare, sul meccanismo che le piante attivano per proteggersi dalle molecole tossiche prodotte quando l’energia della luce assorbita dai tessuti verdi non può essere completamente utilizzata dal metabolismo cellulare. Utilizzando tecniche di imaging della fluorescenza, il team ha isolato una serie di mutanti alterati nella risposta all’eccesso di luce. Sorprendentemente, queste piante mostravano un aumento della crescita in luce bassa, tanto maggiore quanto più la risposta era repressa.
“Con la fotosintesi, le piante usano l'energia solare per assorbire l’anidride carbonica dall'atmosfera e convertirla in biomassa, che noi utilizziamo per nutrirci, o come carburante, o come materia prima rinnovabile per molte industrie”, spiega Roberto Bassi, docente di Fisiologia Vegetale specializzato in ingegneria proteica. “In pieno sole, tutte le piante assorbono più luce di quanto il loro metabolismo possa utilizzare per la crescita. L’energia in eccesso rende le molecole della clorofilla altamente reattive verso l’ossigeno, attivando reazioni distruttive che inattivano irreversibilmente la fotosintesi stessa, e riducono la produttività vegetale”.
“Quando questo avviene – continua Bassi – le piante innescano, attraverso un interruttore molecolare, delle reazioni ultrarapide che avvengono in picosecondi, ossia millesimi di miliardesimi di secondo, e che competono con quelle distruttive e le prevengono. In pratica consentono alla foglia di disperdere l'energia in eccesso in forma di calore, in un processo chiamato con una sigla: NPQ. Il sistema è simile ad un circuito elettrico di sicurezza, in cui il sovraccarico di energia viene scaricato a terra evitando danni al sistema”.
Conseguenze e sviluppi futuri. L’importanza della scoperta consiste nell’aver identificato sia i geni responsabili del meccanismo di difesa, sia le relazioni catalizzate. “Ora che conosciamo il punto in cui origina il meccanismo, ed in cosa consiste, possiamo pensare di modificarlo, adattandolo alle nostre esigenze”, rileva Luca Dall’Osto, del laboratorio di Fotosintesi e Bioenergie di Verona. “Agendo sulla sensibilità di questo ‘interruttore molecolare’, si potrà regolare l’efficienza della trasformazione della luce solare da parte degli organismi fotosintetici. L’obiettivo è quello di modulare tali reazioni intervenendo con tecniche di ingegneria genetica, per trasformare in biomassa almeno una parte dell’energia luminosa altrimenti dispersa in misura rilevante, fino all’80%. Questo potrà essere applicato negli ambienti di agricoltura intensiva dove tale percentuale potrà scendere al 20% consentendo così di aumentare la resa della pianta in termini di produzione ”. L’obiettivo a lungo termine, ambizioso, è quello di contribuire a soddisfare la domanda globale di cibo, che le Nazioni Unite stimano debba aumentare dell’80% entro il 2050 per far fronte alle esigenze della popolazione crescente, un obiettivo molto superiore alle prospettive offerte del miglioramento genetico tradizionale.
"Una pianta molto semplice è stata utilizzata come organismo modello in questo studio, perché più facile da maneggiare, ma siamo convinti che le stesse modifiche possano funzionare anche in altre specie", conclude Roberto Bassi. "I processi molecolari che abbiamo individuato sono universali, cioè presenti in tutte le piante, quindi ci aspettiamo che ottimizzando lo stesso meccanismo in specie di interesse agrario si riesca ad aumentare la resa anche di queste. Il nostro e altri studi sulla fotosintesi suggeriscono che il processo non sia pienamente ottimizzato per la massima resa, che un margine significativo di miglioramento esista, e che sia questa la strada da percorrere”.
La collaborazione è stata possibile anche grazie al supporto dell’università di Verona che, con il programma di mobilità internazionale CooperInt, ha permesso lo scambio di ricercatori tra le unità partner, e del Miller Institute of Berkeley che ha fatto lo stesso.
11.04.2017