L’università di Verona ha preso parte a una ricerca che, grazie ad una strategia innovativa sviluppata dall’Istituto Italiano di Tecnologia di Rovereto e dall’Università di Pisa, potrà aiutare a capire come alterazioni genetiche compromettono la regolare funzione del cervello, aprendo nuove frontiere nella comprensione delle cause dei disturbi dello spettro autistico.
Lo studio, pubblicato sulla rivista Brain, è stato condotto dal team di ricercatori guidato da Alessandro Gozzi dell’Istituto italiano di tecnologia di Rovereto e dal professor Massimo Pasqualetti del dipartimento di Biologia dell’università di Pisa in collaborazione con l’ateneo scaligero e altri quattro gruppi di ricerca distribuiti sul territorio nazionale. La ricerca, interamente italiana, è stata finanziata dalla fondazione statunitense Simons foundation for autism research initiative, www.sfari.org, ente che seleziona e premia le ricerche più innovative nel campo dell’autismo a livello mondiale. “Sebbene sia noto che l’autismo sia altamente ereditario – spiega Alessandro Gozzi, coordinatore del team di ricerca – il ruolo che i geni hanno nel determinare questa sindrome non è ancora chiaro. Questo studio rappresenta un’importante dimostrazione di come specifiche alterazioni del Dna possano compromettere le connessioni cerebrali e la regolare funzione del cervello, causando una delle forme più diffuse di autismo”.Oltre all’Iit e all’università di Pisa hanno partecipato allo studio le università di Verona e Torino, il Laboratorio europeo di biologia molecolare a Monterotondo, il Consiglio nazionale delle ricerche di Catanzaro e il S. Anna institute and research in advanced neuro-rehabilitation di Crotone.
Utilizzando la risonanza magnetica funzionale, una tecnica di neuroimmagine totalmente non invasiva che permette di ricostruire digitalmente il cervello dei pazienti in tre dimensioni, i ricercatori dell’Iit hanno analizzato le scansioni cerebrali di 30 bambini affetti da disturbi dello spettro autistico, tutti portatori della stessa mutazione genetica conosciuta con il termine scientifico di “delezione 16p11.2”. L’analisi di questi segnali ha permesso di scoprire che la corteccia prefrontale nei bambini portatori della mutazione oggetto di studio, rimane isolata e non riesce a comunicare efficacemente con il resto del cervello, generando sintomi specifici dell’autismo, come un ridotto interesse ad instaurare relazioni sociali e problemi nella comunicazione.
Lo ricerca ha, inoltre, previsto uno studio parallelo su modelli animali in cui è stata riprodotta la mutazione del gene 16p11.2. Sempre grazie alla risonanza magnetica, anche nelle cavie sono stati riscontrati gli stessi deficit di connettività e una riduzione del dialogo fra le medesime aree corticali come nei bambini affetti da autismo. I ricercatori dell’università di Pisa hanno quindi studiato il cervello dei topi portatori della delezione 16p11.2 per cercare di capire se vi fossero alterazioni strutturali capaci di spiegare i deficit di connettività funzionale osservati.“Grazie a questa analisi parallela – spiega il professore Massimo Pasqualetti – siamo riusciti ad esaminare le connessioni neuronali a livello neuroanatomico fine, cioè con un dettaglio estremo, scoprendo, attraverso lo studio sui modelli animali, quali siano le anomalie strutturali potenzialmente all’origine dei difetti di connettività cerebrale riconducibili allo specifico disturbo dello spettro autistico riscontrato nei bambini portatori della delezione 16p11.2”. Alla luce di questi risultati i ricercatori stanno ora studiando altri geni per capire come le mutazioni nel Dna associate all’autismo alterino le funzioni del cervello e individuare le diverse categorie che compongono lo spettro dell’autismo.“Ci aspettiamo che questo tipo di approccio permetta di identificare in maniera oggettiva quante e quali forme di autismo esistano – conclude Alessandro Gozzi – un prerequisito fondamentale per l’identificazione di future terapie mirate”.
Mario Buffelli, docente di Fisiologia nel dipartimento di Neuroscienze, Biomedicina e Movimento e tra i firmatari dello studio, spiega il contributo dell’ateneo di Verona alla ricerca:
Per approfondimenti: https://academic.oup.com/brain/article-lookup/doi/10.1093/brain/awy111